Febbre da Fieno, il Grand Tour di Lem

“Febbre da fieno” è un romanzo poliziesco apparentemente classico in cui il lettore, insieme al personaggio principale, un astronauta americano in pensione, è chiamato a  indagare su una serie di morti misteriose tra Napoli, Roma e Parigi. Diciamocelo, ogni libro di Stanisław Lem suscita il desiderio di conoscere tutti i campi scientifici toccati  dallo scrittore.

Ma come si può risolvere un mistero quando le leggi della natura, come la teoria del caos e la probabilità sono i primi soggetti sospettati? Forse la vita di ogni persona dipende dal caso e non ha senso interferire con il futuro.

Il romanzo combina magistralmente pagine di azione frenetica con attimi di profonda riflessione sulle minacce alla civiltà e sulla “globalizzazione”  Il mondo che Lem vede e descrive è il risultato del gioco d’azzardo dove “Dio gioca a dadi” e della somma delle probabilità.

 “Febbre da Fieno” è opera di uno scrittore maturo, esperto che sa creare magistralmente intrighi, intrecciarei fili letterari per poi traghettare il tutto nelle acque chete di una soluzione efficace.

La legge di Lem: “Nessuno legge; se legge, non capisce nulla; se capisce, dimentica subito”

Il mistero da risolvere ruota intorno a delle morti misteriose causate da uno stato di panico apparentemente inspiegabile. Il profilo delle persone colpite da queste circostanze sospettosamente innaturali è piuttosto peculiare e, in qualche modo, coincide con le condizioni psicofisiche del nostro eroe, un astronauta ritiratosi prematuramente a causa di una sua allergia.

I morti hanno lo stesso sesso, la stessa età, la stessa struttura corporea, gli stessi disturbi e, manco a dirlo, la stessa situazione finanziaria. Parliamo quindi di uomin sulla cinquantina, piuttosto alti, di corporatura discreta o atletica, scapoli o vedovi […]

Un cosmonauta americano, la cui allergia gli impedisce di fare carriera, viene inviato in Italia per una strana missione: deve rivestire i panno di una sonda o di un tester vivente, addentrandosi in una nuova realtà per riuscire a spiegare il mistero della morte di diversi uomini – che, in circostanze in simili, ma per ragioni sconosciute, hanno perso la vita.

Tuttavia, la soluzione del mistero si rivela decisamente diversa da quella attesa dai comuni lettori di romanzi gialli. Non ci sono manette che potrebbero trattenere un assassino così misterioso come una serie di determinati fattori che devono verificarsi per portare alla fine una persona allergica in uno stato di estrema depressione.

Stanisław Lem, scrittore di formazione medica (studiò all’università di Leopoli), era perfettamente consapevole dell’impatto che i preparati chimici e farmacologici possono avere sul corpo umano, nozioni che lo ha aiutato a creare una storia criminale con un assassino che si comporta perfettamente ma che, tuttavia, trova difficile accusarlo di premeditazione e assicurarlo alla giustizia.

In “Katar”, questo il titolo originale polacco, come in molti altri suoi romanzi, Lem mostra al lettore che raramente si possono ottenere dei risultati senza sacrifici.

Questo è uno degli ultimi romanzi di Lem, scritto nel 1976, straborda dai canoni del romanzo poliziesco sfruttando le potenzialità offerte dalla fantascienza, senza fare ricorso a invenzioni tecniche o a personaggi insoliti, ma utilizzando un metodo piuttosto unico di interpretazione di fenomeni misteriosi, che ancora non si era visto in altri romanzi. In “Febbre da fieno” prevalgono la razionalità e la logica e i misteri del romanzo vengono illuminati pagina dopo pagina.

   

 Si può dire che la chiave di “Febbre da fieno” è il caos: eventi, persone, motivazioni e coincidenze. Nel romanzo appare anche la visione profetica di Lem che descrive, a modo suo, la “globalizzazione”, cioè il principio di connessione dei fenomeni che si verificano in tutto il mondo in un insieme funzionale, ma l’insieme è così complesso che i principi del suo funzionamento non possono essere pienamente compresi, perché sono governati dalla casualità e dalle leggi della statistica. Pertanto, la concretezza e la consapevolezza dell’eroe-narratore, che registra instancabilmente e oggettivamente i fatti, valgono in definitiva tanto quanto la concretezza di Witold Gombrowicz nel suo Cosmo, dove cerca invano la coerenza nel ripetuto all’infinito elenco degli “elementi” del suo mondo: “un passero, un bastone, una bocca, un gatto, un nodulo, un graffio…” ecc. Non se ne ricava nulla. Pertanto, qui l’intuizione è più affidabile della deduzione, ad esempio in questa incredibile descrizione delle allucinazioni dell’eroe, dietro le quali il bisogno di significato irrompe con il massimo sforzo.

    Ma non finisce qui, perché la complessità presente nel macromondo si estende anche al campo delle micromolecole: solo un biochimico sa quanto siano estremamente complicati i principi dell’impatto dei composti chimici sugli organismi viventi e quanto influenzino in modo determinante le tracce di alcune sostanze sui sentimenti umani, comportamenti e funzioni fisiologich. Per questo motivo, i creatori di nuovi farmaci non perseguono l’obiettivo semplicemente componendoli “logicamente” – partendo da elementi costitutivi di elementi con effetti precedentemente noti, ma conducono centinaia e migliaia di esperimenti con vari composti prima di trovare quello che rivelerà l’effetto effetti desiderati. Pertanto, nel libro di Lem, il labirinto del mondo della politica, dell’economia e di altri affari umani corrisponde a un secondo labirinto, situato nel micromondo.

    La “domanda cognitiva” posta nel romanzo trova una risposta apparentemente semplice: a un puzzle infinitamente complesso si dovrebbe rispondere con quanti più tentativi possibili per risolverlo – solo allora la statistica ci fornirà finalmente la soluzione a tutti i dilemmi. Non perché spariamo con precisione, ma perché sotto la pioggia di proiettili prima o poi uno di loro deve colpire. Questo è lo scopo degli aneddoti “modello” del romanzo sulle gocce di pioggia che cadono su un tavolo tempestato o sui tiratori che mirano alle mosche mentre volano. Sembra divertente, ma il mondo di Lem è costruito in modo tale che alla fine dovrà risolvere i propri enigmi. Ciò si ottiene con la stessa complessità e ridondanza che in precedenza distruggevano le possibilità di deduzioni logiche. Pertanto, i successi di cui godono oggi gli scienziati non sono dovuti alla loro brillante visione di penetrare il caos dei fatti che si affollano davanti a loro, ma perché hanno “lavorato” con un esercito di centomila persone e, statisticamente parlando, uno di loro deve alla fine trova la risposta giusta alla domanda e pone le stesse domande più e più volte. Non è molto romantico, in fondo, apprendere che le scoperte non vengono fatte da geni puri, ma da scienziati che hanno avuto fortuna… Eppure Lem rende “Febbre da fieno” un libro estremamente attraente e avvincente da leggere.

 “Febbre da fieno” si interroga innanzitutto sulle condizioni per conoscere la realtà contemporanea e fornisce una risposta che non privilegia la letteratura, ma piuttosto l’arte di parlare di persone e situazioni straordinarie. Il romanzo sembra dire: è inutile fare sforzi folli e affaticare la mente, perché il mondo di oggi è sostanzialmente inconoscibile per deduzione, ma basta aspettare un po’ e affrontare il problema in vari modi, e alla fine il mistero in qualche modo illuminerà – sotto l’azione della massa stessa numerosi tentativi di conoscenza. Cosa ne ricava la letteratura, che, dopo tutto, definisce il protagonista dell’opera un “eroe”? Diciamo che nasconde la sua frode, perché finge di parlare dell'”uomo in generale”, mentre è una storia su coloro a cui è successo qualcosa di straordinario, su coloro che le statistiche hanno scelto tra una moltitudine di altri, dando loro un ruolo speciale interpretare un ruolo.

La consapevolezza che un eroe che riesce è un prescelto del destino, piuttosto che qualcuno che se lo è forgiato da solo e lo ha meritato, non sembra cambiare molto nella visione della letteratura stessa.

    Eppure Lem sembra – nonostante tutto – pensarla diversamente, perché la letteratura non solo ci dice com’è il mondo, ma cerca anche di rispondere alla domanda: “come vivere?” – non agli “eroi”, ma a ciascuno individualmente. . E a questo punto il suo “Febbre da fieno” sembra – del tutto inaspettatamente – dare una risposta come la potrebbe dare il signor Cogito di Herbert.

Chi ha già letto le opere di Lem sa perfettamente che i suoi personaggi non sono dei cervelloni che esplorano il mondo dietro una scrivania, ma amano l’ azione e non evitano il rischio. Ijon Tichy, Pirx, Hal Bregg, Kris Kelvin, Rohan: tutte queste sono protagonisti che realizzano loro stessi nell’azione, scoprendo il mondo sia attraverso la ragione che con tutti gli altri sensi. Lem che era riluttante a viaggiare è esattamente questo: un avventuriero del pensiero che percorrere sentieri inesplorati. Affronta i problemi che ha davanti in modi diversi, utilizzando diverse procedure mentali, diversi linguaggi scientifici e utilizza la letteratura come un laboratorio in cui si conduce la ricerca su un numero infinito di modelli. Lo scrittore stesso è un vagabondo che, incapace di volare, organizza una “avventura cosmica” sulla Terra e ci consiglia di vagare, assorbire i segreti del mondo e stare coraggiosamente dalla parte della realtà, indipendentemente da tutti gli ostacoli, i dubbi e le trappole che ci vengono posti dalla debolezza personale, dalla politica e da una teoria scettica della conoscenza.


Stanisław Lem

Febbre da fieno

traduzione di Lorenzo Pompeo

Sírin
2020, Brossura 14,5×20,5
ISBN: 9788862433778

€ 18,00

Voland https://www.voland.it/libro/9788862433778

Il Buio straordinario di Anna Kańtoch

“Buio” di Anna Kańtoch è un racconto sicuramente straordinario che sfida le convenzioni narrative e affronta temi complessi di identità, tempo e realtà. La voce narrante, in maniera piuttost ambigua, svela in maniera graduale la sua vera identità, suggerendo la possibilità che non si tratti di un essere umano ma… infatti non mancano intrighi alieni e linee temporali misteriose.

La trama ruota attorno alla relazione tra la voce narrante e Jadwiga Rathe, rendendola allo stesso tempo centrale alla vicenda e affascinante.

“Czarne” (questo il titolo originale) è un romanzo complesso che affronta temi identitari, temporali e di realtà parallele attraverso un’attenta alchimia di diversi generi letterari.

Il romanzo riesce a offrire una prospettiva fresca e originale su temi classici del genere. “Buio” è un libro intrigante che potrebbe richiedere più di una lettura per coglierne appieno la complessità e i significati nascosti. È una lettura che sfida il lettore a esplorare i confini della realtà e dell’identità in un mondo che rimane sospeso tra sogno e realtà.

Infatti, almeno inizialmente, in una prima lettura, il lettore potrebbe credere che i “ricordi” coincidano con gli eventi nella storia “presente”. Ma non sempre è così…

La prosa di Kańtoch è coinvolgente e ricca di simbolismo, utile a creare un’atmosfera surreale e onirica. Il romanzo mescola elementi di onirismo, realismo magico, romanzo femminile, romanzo dell’orrore e giallo strano, offrendo una prospettiva unica e fresca su temi classici di fantascienza presentati sotto una diversa prospettiva filtrata dal prisma dei classici della fantascienza polacca.

A dirla tutta, il luogo dell’azione potrebbe non essere la Polonia, ma una terra speculare che riflette quasi perfettamente le terre polacche della fine delle spartizioni tra le due guerre. Questa Polonia oscura vive come sospesa nel vuoto: “non c’è nessuno all’estero”, “né la Germania né Hitler esistono nel nostro mondo”, sebbene i suoi abitanti siano naturalmente convinti che esista il resto del mondo.

“Buio” è focalizzato in una tenuta estiva, il punto centrale della Polonia alternativa ed è, allo stesso tempo, la città natale del personaggio principale e oggetto dell’interesse di un gruppo che sospetta che qualcosa non stia andando come dovrebbe in questa strana realtà dove il tempo non scorre in modo lineare. Sembra infatti che tutti i cambiamenti passino attraverso un “cordone ombelicale invisibile” dalla Polonia reale, ma localmente sono stati piazzati dei trasmettitori che lo accelerano.

Nel romanzo si trovano tre date specifiche: 1893, 1914 e 1935: la prima appare direttamente accanto al necrologio di Jadwiga come anno della sua morte, implicitamente – la sua prima morte. La seconda può essere presunta quando si menzionano gli avvenimenti di Sarajevo, cioè l’assassinio dell’arciduca Francesco, che aprì la prima guerra mondiale. La terza data viene in mente quando si descrive il funerale del maresciallo Piłsudski. Questo ciclo di circa vent’anni non è casuale; sappiamo che la differenza d’età tra chi narra e Jadwiga Rathe è di circa vent’anni.

C’è poi una diversa percezione del tempo, sappiamo che la protagonista, oltre ad avere alcuni vuoti di memoria, conserva degli strani ricordi come ad esempio la nascita del fratello minore e il Capodanno del 1900. Un altro esempio è il padre della narratrice, o almeno una delle sue versioni, che emerge dalla non-esistenza in tempi che sono suoi per adattarsi istintivamente ad essi.

Il finale del libro offre suggerimenti sulla vera identità della voce narrante, ma non è una vera e propria fine, visto che la storia vive di un tempo tutto suo, un loop ellittico e può quindi essere visto come un punto di partenza per una rilettura che farà risaltare diversi aspetti apparentemente secondari durante la prima. Questa storia stessa è un doppelganger che finge quasi perfettamente di essere quel che non è.

In conclusione, “Buio” è un romanzo affascinante che esige molteplici letture per coglierne appieno la complessità e i significati nascosti. Kańtoch offre una visione unica e originale dei temi di identità, tempo e realtà. Se siete disposti a esplorare le frontiere della narrativa di fantascienza e a immergervi in un mondo sospeso tra sogno e realtà, “Buio” potrebbe essere un’ottima scelta. Tuttavia, aspettatevi di rimanere con molte domande senza risposta e di essere sfidati a cercare interpretazioni più profonde.

@quelfabioizzoriginal

Buio Anna Kantoch Traduzione di Francesco Annichiarico Carbonio Editore #booktok

♬ suono originale – Quel Fabio Izzo
L’autrice

Anna Kańtoch, classe 1976, si è laureata in lingua e letteratura araba presso l’Università di Cracovia. Membro del gruppo letterario Harda Horda, è considerata una delle voci più interessanti della letteratura polacca contemporanea e ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Ha pubblicato numerosi romanzi e racconti. Buio ha vinto il prestigioso premio Żuławski.

Collana Cielo stellato
Traduzione Francesco Annicchiarico
Pagine 192

Prezzo 16,00 euro
Isbn 9788832278118
Uscita 29 ottobre 202

La terra inumana

di

Józef Czapski

(Na nieludzkiej ziemi)

I libri veramente importanti, parafrasando, sono cinque o sei nella vita di

ognuno di noi, il resto fa volume.

Gli store online e i social e anche le librerie di provincia danno rifugio a

centinaia di volumi necessari, fondamentali e capolavori. Poi,

improvvisamente, tra tutti loro, affiora “ La terra inumana” di Czapski.

Un libro importante, che potrebbe essere visto come un meccanismo a

orologeria, lanciato com’è sull’attualità con tutto il greve peso della sua

storia, ma che in realtà condanna un sistema dispotico e spietato in

maniera umanista, con piena comprensione dello spirito umano, nel bene e

nel male.

Czapski nelle sue pagine cesellate si sofferma sui dettagli, sugli aspetti più

intimi delle anime costrette a un viaggio inumano, nell’assurdità che solo

una logica distorta può accettare. Un’intimità fatta di miseria umana, di

lotta per la vita, minuto per minuto, secondo per secondo ma senza

diventare mai mera cronaca.

Józef Czapski è stato pittore, scrittore, esperto di letteratura e arte. Ha

collaborato alla rivista parigina “Kultura”. Imprigionato a Starobielsk, si è

miracolosamente salvato e ha poi testimoniato sui crimini sovietici con la

sua vita e libri come “Wspomnienia starobielskie” e per l’appunto “Na

nieludzkiej ziemi”. La prima opera fu pubblicata con il titolo di “Ricordi di

Starobielsk”, correva l’anno il 1945 e anche il nome dell’autore fu

italianizzato, diventando Giuseppe Czapski.

Fu un maggiore dell’esercito polacco e e co-fondatore della rivista parigina

“Kultura”, ovvero, ambasciatore non ufficiale dell’indipendenza polacca.

Tadeusz Nowakowski, giornalista della Rozgłośnia Polska RWE, si è così

espresso per omaggiarne la memoria: “È venuto da noi un pensatore, un

osservatore sensibile dell’anima umana, un idealista disinteressato e

premuroso. Era alto e davvero spiccava sopra la testa, non solo in senso

letterale. Era affascinante per la sua erudizione e la sua eleganza spirituale.

I francesi interessati alle questioni polacche sapevano che non era Jerzy

Putrament a rappresentare le idee e le aspirazioni del suo paese, ma

l’emigrato Czapski, ufficialmente non considerato nell’Est”.

Józef nacque il 3 aprile 1896. La madre era di origine austriaca. Studiò la

cultura polacca e si considerava, in maniera decisamente pionieristica, un

europeo. In alcune sue pagine autobiografiche ha raccontato la sua infanzia

trascorsa in famiglia tra governanti francesi e tedesche. Czapski è stato un

artista versatile, apprezzato per la sua abilità nella scrittura e nella pittura.

Le sue opere sono sì testimonianza della bellezza dell’arte, ma anche della

realtà storica e politica della sua epoca.

Il 3 aprile, il suo compleanno, per un crudele scherzo del destino diventerà

anche l’anniversario del primo convoglio di prigionieri polacchi del campo

di Kozielsk giustiziati a Katyn. Nell’autunno del 1939, fu fatto prigioniero a

Chmielek, nei pressi Biłgoraj, all’epoca occupata dall’Armata Rossa. Da qui

fu mandato nel campo di prigionia di Starobielsk.

“Na nieludzkiej ziemi” racconta la sua esperienza in URSS e i crimini

commessi dai sovietici. Czapski ha lasciato un’importante “registro”,

un’impronta indelebile nella storia dell’arte e della letteratura polacca.

In una sua intervista rilasciata alla storica Radio Free Europe, dichiarò:

“Questa terra disumana era la la Russia sovietica (…). Per quanto riguarda

Starobielsk e Katyn, devo tornare al momento in cui siamo stati gettati a

Starobielsk. Non sapevamo nulla, come ci avrebbero portato via di lì, ma in

quei campi non eravamo così infelici, perché vivevamo nella speranza che

le nazioni democratiche avrebbero vinto e allora qualcosa sarebbe

cambiato non solo in Germania, ma anche in Russia (…). E poi mi hanno

portato nell’ultimo o penultimo gruppo al campo di Pawliszczew Bor, che si

trovava in un palazzo antico. Vivevamo in baracche eccellenti. In ogni caso,

siamo partiti da Starobielsk in primavera e tutti avevamo di nuovo

illusioni.”

Il 10 febbraio 1940 iniziò la deportazione di massa di polacchi in Siberia. Si

stima che circa 140.000 persone furono deportate in Unione Sovietica. Molti

di loro perirono durante il percorso forzato, altri non fecero mai ritorno a

casa. Tra i deportati figuravano, principalmente, le famiglie dei militari, dei

funzionari, degli impiegati forestali e delle ferrovie che abitavano le aree

orientali della Polonia prebellica.

L’URSS effettuò queste deportazioni contro i suoi nemici politici, avendo la

possibilità di utilizzare migliaia di persone come manodopera gratuita. Il

lavoro massacrante nella taiga siberiana con temperature che raggiungono

diverse decine di gradi, la fame e le malattie uccisero molti esuli. L’inizio

delle deportazioni di massa permise ai sovietici di annettere le province

orientali della Repubblica di Polonia, sancito da un protocollo segreto

allegato al patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Le deportazioni di

centinaia di migliaia di polacchi furono decise dai massimi rappresentanti

del potere sovietico – Joseph Stalin, Lavrentiy Beria, e Vyacheslav Molotov.

Gli abitanti dei confini orientali venivano spesso sorpresi dai sovietici di

notte o all’alba, e quindi costretti a fare le valigie cercando di portare con

loro tutto il necessario. Come si è già detto, spesso venivano deportate

intere famiglie. Gli sfollati venivano indirizzati alla più vicina stazione

ferroviaria, dove ad attenderli c’erano dei vagoni non coibentati. Il

sovraffollamento, il freddo, le pessime condizioni sanitarie e la scarsità di

acqua potabile hanno provocato una percentuale significativa di morti

durante le settimane di trasporto.

I cittadini polacchi furono deportati negli oblast di Arkhangelsk, Sverdlovsk

e Irkutsk. I sopravvissutti al trasporto coatto venivano poi condannati ai

lavori forzati. Secondo le stime riportate dalle autorità polacche in esilio, a

seguito delle deportazioni organizzate nel 1940-1941, c1 milione di civili

finìnei gulag siberiani. I documenti sovietici ne riportano soltanto 320.000.

Alcuni di loro riuscirono a fuggire dai campi di lavoro grazie all’esercito del

generale Władysław Anders formatosi in URSS. A dire il vero, c’era anche

un altro modo per i lasciare la Siberia, cioè unirsi Tadeusz Kościuszko ,

divisione ispirata e creata dai comunisti polacchi e, con il consenso di

Stalin, ma questa è un’altra storia.

Le deportazioni della popolazione polacca in profondità nell’URSS nel 1940-

1941 non furono le ultime. Dopo che l’Armata Rossa penetrò nel territorio

della Polonia occupata dai tedeschi nel 1944.

Leggendo alcuni passaggi di questo libro mi è tornata in mente una

conversazione avuta un po’ di tempo fa, a Vilnius. Ebbi modi di parlare coi

nipoti di alcuni deportati lituani che riuscirono a sopravvivere alla loro

Siberia, perché, come affermavano, erano maggiormente abituati a vivere

in condizioni estreme, in modo semplice. Ricordo che tutti loro portavano

un fazzoletto, nel taschino, come i nonni insegnarono. I fazzoletti di stoffa

grezza, bianchi a intrecci visibili, erano utilizzati per pulire, filtrare l’acqua,

il più possibile. Cosa che i soldati di città ignoravano, ad esempio. Dubito

della loro originalità, credo che li indossassero più per ricordo che per altro,

a perenne testimonianza, ma non si sa mai.

Questa Terra disumana è un libro di contrapposizioni, anche perché

la cultura russa aveva tracce profonde nell’autore. Infatti Czapski, denuncia

un sistema, quello del regime sovietico dove “l’uomo” o per meglio dire, il

nemico, “non conta nulla”. Dove tutti soffrono per un governo che ha “addestrato le persone alla crudeltà disumana, all’ubbidienza cieca, a

eseguire i compiti a prezzo del sangue e a dispetto di tutto ciò che all’uomo

è caro, alla delazione obbligatoria”.

Tra sommersi e salvati, l’autore riconosce un’innata spiritualità al popolo

russo e la ricorda nelle parole spese per i contadini, le persone più semplici,

quelle legate alla terra, che lanciavano ai polacchi prigionieri, un po’ di

cibo, in un semplice tentativo di soccorso muto ma non mutuo, nel dare

speranza senza riceverne.

Józef Czapski fu liberato dal campo di Griazovets nel 1941 in virtù

dell’accordo Sikorski-Majski e si unì all’esercito di Anders a Tockoje.

Józef Czapski

La terra inumana

Traduzione di Andrea Ceccherelli, Tullia Villanova

A cura di Andrea Ceccherelli

Biblioteca Adelphi, 743

2023, pp. 459

isbn: 9788845937521

Temi: Letterature slave

24 marzo, il santo del giorno San Gabriele dell’Addolorata

San Gabriele dell’Addolorata, nato Francesco Possenti il 1º marzo 1838 a Assisi, in Italia, era il decimo figlio di una famiglia aristocratica. Fin da bambino mostrò una grande devozione per la Vergine Maria e dimostrò un forte desiderio di consacrarsi alla vita religiosa.

All’età di 18 anni entrò nell’Ordine dei Passionisti e prese il nome di Gabriele dell’Addolorata. Gabriele visse una vita di preghiera, penitenza e umiltà, cercando sempre di imitare la passione di Cristo. In particolare, aveva una grande devozione per la Passione di Gesù e la Madonna Addolorata.

Durante la sua vita religiosa, Gabriele fu descritto come un giovane semplice e modesto, ma anche molto intelligente e istruito. Era anche un abile musicista e suonava il pianoforte e il violino.

Nel 1859, un’epidemia di colera colpì il suo convento e Gabriele assistette i suoi compagni di ordine e le persone della comunità malate, rischiando la sua stessa vita. In seguito, Gabriele si ammalò a sua volta e morì il 27 febbraio 1862 all’età di soli 23 anni.

Gabriele è stato beatificato da Papa Pio X nel 1908 e canonizzato da Papa Benedetto XV nel 1920. È conosciuto come il patrono dei giovani studenti e degli studenti universitari, nonché dei malati di tubercolosi e di coloro che lavorano nella prevenzione della tubercolosi.

La sua festa liturgica cade il 27 febbraio, il giorno della sua morte, ma in molte regioni italiane, tra cui la sua Umbria natale, la festa è celebrata il 24 marzo, giorno in cui le sue spoglie furono traslate nella chiesa di Isola del Gran Sasso, dove si trovano tutt’ora.

Scampoli di un’intervista


In realtà il titolo è stato l’ultimo dettaglio del libro, posso dire che è nato da sé, come il libro stesso in realtà. Una volta finita la prima stesura, l’editore, cioè Gordiano, mi ha semplicemente richiesto di utilizzare, per ovvi motivi, la parola Ucraina e di getto, così, senza pensarci troppo, mi è venuto fuori “Appunto una guerra”. Vorrei ricordare che, inizialmente, tutto ciò veniva definito come un’ “operazione speciale e non come una guerra, per l’appunto. Inoltre, tra le tante figure che hanno attraversato, a forza, questa dolorosa vicenda c’è anche una famiglia italo-ucraina che vive in Finlandia. Parlando con loro si è creata la definizione, imprecisa ma spontanea, di appuntare, prendere appunti. Però sì, appuntare è sinonimo di fissare e, alla fine ho cercato di fissare su carta tante cose di questa esperienza, per non dimenticarla. La vita scorre fuori dai margini, il sottotitolo, è invece una frase presente nel libro che ben descrive il tutto.

– Vuol presentarci il protagonista del libro? Cosa spicca maggiormente in lui e perché la scelta di raccontare proprio la “sua storia”?

Ho raccontato o per meglio dire “Mi ha raccontato” la sua storia per far sì che non vada dimenticata. Nelle poche dediche che feci a suo tempo sul mio libro, uscito ormai anni fa, cioè “Eco a perdere”, utilizzavo un’espressione particolare “Affinché nessun’ eco vada perduta”. Questo è un po’ il mio percorso letterario. Quando un anno fa partii per la Polonia non sapevo davvero cosa aspettarmi. Partii perché sapevo che, forse, quel mondo a me cosìvicino, che ho sempre amato, non sarebbe più esistito. La guerra è distruzione, lì dove arriva. La stessa Polonia che conoscevo io è molto cambiata, ha risposto in maniera decisa e forte, aiutando i rifugiati, facendo del suo meglio. Il protagonista del libro è l’insieme di tante persone incontrate, di piccoli dettagli rubati da ognuno di loro. Realtà che non devono andare perdute

– Intorno a Yosyp ruotano altri personaggi secondari, sia maschili che femminili. Ce li può presentare?
Lei è particolarmente legato a uno fra essi?
Non vorrei dimenticarne nessuno, comunque Adam, Mila e Margot sono sicuramente quelli più vivi all’interno del romanzo. Adam è una figura paterna, un essere mitologico, una persona che pur rimettendoci tralascia il rancore e cerca di fare del bene di tenere su il morale del popolo. All’epoca, soprattutto a Przemyśl, c’era di tutto (ci arrivò anche Salvini). C’erano tanti volontari, pizzaioli, parrucchieri, venuti da tanti luoghi a cercare di fare del bene. Adam è un po’ tutti loro. Margot è una ragazza che incontrai in un bar. Inutile dire che attirò la nostra attenzione perché piangeva, pianse per mezz’ora dal nostro arrivo e purtroppo, pianse anche quando ce ne andammo. Sono ancora in contatto con alcune di queste persona che ora si trovano in Turchia, in Austria e in Canada,

– Già nelle prime pagine si legge “Il pericolo più grande qui è la noia. Vero è che se non si muore in guerra, non si muore di sicuro di noia. La noia però ti assale ed è difficile credere, sperare in qualcosa o in qualcuno in questa situazione dove si è costretti a dipendere solamente dagli altri…” Queste parole riportano ad una situazione d’immobilità, di dipendenza dagli altri …perché si è profughi e null’altro si può fare. La fuga dalle proprie terre è solo questo o include altre sofferenze?

Non è solo questo ma nella fase iniziale è sicuramente questo perché nessuno riesce a pensare a un’entità estratta come il domani. Si è grati di esseri vivi, ma si è costretti a vivere in un presente infinito. Un presente fatto di dipendenza e di impotenza. Stranamente, la sofferenza del “domani” se mi è consentito chiamarla così, arriva in una seconda fase. Con il trascorrere del tempo si realizza una nuova condizione. Ci si cristallizza. Perdonatemi la licenza. Il passato rimane cristallizzato in un tempo che non scorre più o che non scorre come dovrebbe. Ho visto persone scoppiare a piangere, apparentemente senza motivo, perché ricordavano cose, attimi, luoghi andati perduti per sempre. Consapevoli di aver perso tutto rendevano di cristallo le loro lacrime. Forse è troppo retorico, ma al momento non saprei dirlo in maniera diversa

– Lei parla di sentimenti, ad esempio del pianto che definisce “condizione comune”. Questa manifestazione di tristezza che valore ha nel protagonista, un uomo di quarant’anni?
Direi che la nostra società piange poco e male. Piange per cose prive di valore, piange per delle cose appunto. Tendiamo a dimenticare troppo in fretta le persone. Siamo una società narcisista che si specchia su se stessa e offusca troppo l’altro. Amiamo i vip, gli influenzer, seguiamo cioè che invidiamo e dimentichiamo gli ultimi. Gli ultimi diventano quell’altro che non ci interessa, così come i sentimenti sono sempre più relegati ai margini. L’attuale condizione comune, a livello umana, è misera, anche a quarant’anni. Penso che siano molti i motivi per piangere, sopratutto se si è deciso di non fare nulla al riguardo,



– In questo suo romanzo lei va al passo con i tempi, non solo quelli storici. Attraverso Yosyp racconta dell’amore per i libri ma tratta anche di una realtà digitale. Vuol dirci il suo pensiero e quello del protagonista?
Yosyp lo sa, non è un luddista, forse non ha mai conosciuto il luddismo. Yosyp è un dinosauro analogico e in questo lo invidio. Io sono costretto a digitalizzarmi a digitalizzare ogni cosa. Un mio compagno delle medie che ha una falegnameria un giorno mi disse “Io volevo solamente lavorare il legno, adesso mi tocca usare il computer” e questa frase mi sembra molto significativa. In questo un po’ invidio Yosyp perché non ha più nulla da perdere, può permettersi di mancare un aggiornamento mentre noi siamo costretti a rincorrere ogni capriccio digitale e non per FOMO, la paura di essere tagliati fuori da una società che include tutto, ma perché viene reso impossibile fare qualsiasi cosa in modi diverso. Il progresso è mettere a disposizioni alternative non imporre. Lo stesso atto del rendere digitale, liquido, perdonatemi il termine, l’industria culturale ha finito con il degradare il tutto. Un disco è “uguale” a un “quadro” che è uguale a un “film” che è “uguale” a un libro perché, in qualche modo decontestualizzato. Decontestualizzato perché, mi spiego meglio, riprodotto dallo stesso dispositivo, lo smartphone. Avere tutto a portata di mano, 24 ore su 24 ore, porta a un consumo generico, per lo più inconsapevole. La società dell’intrattenimento perenne nasce da qui, Tik Tok e Onlyfans sono il nostro presente, i libri il passato. Già la semplice lettura di un libro è diversa da quella su schermo digitale. Recenti studi dimostrano che quest’ultima è più dispersiva (ci volevano degli studi? Direbbe Yosyp). I cinque sensi si stanno perdendo o li stiamo modificando. Sapori, odori e tatto. Soprattutto il tatto. Passiamo le nostre giornate a toccare plastica. Questo ci sta cambiando? Se sì, come? Il discorso è sicuramente molto ampio e non vorrei essere tropo dispersivo. Il futuro è la tecnologia ma l’essere umano non deve assolutamente diventare una sua periferica.

– C’è ancora spazio per la speranza per Yosip e per le tante persone come lui? E’ forse la scrittura ad avere maggior potere salvifico?
Sono tempi di sconforto, Yosyp stesso lo sa bene e non nutre grandi speranze. Si scontra con realtà e con persone a lui incomprensibili. Per lui la scrittura non è salvezza, non c’è nulla in fondo da salvare, ma semplice testimonianza.