La terra inumana

di

Józef Czapski

(Na nieludzkiej ziemi)

I libri veramente importanti, parafrasando, sono cinque o sei nella vita di

ognuno di noi, il resto fa volume.

Gli store online e i social e anche le librerie di provincia danno rifugio a

centinaia di volumi necessari, fondamentali e capolavori. Poi,

improvvisamente, tra tutti loro, affiora “ La terra inumana” di Czapski.

Un libro importante, che potrebbe essere visto come un meccanismo a

orologeria, lanciato com’è sull’attualità con tutto il greve peso della sua

storia, ma che in realtà condanna un sistema dispotico e spietato in

maniera umanista, con piena comprensione dello spirito umano, nel bene e

nel male.

Czapski nelle sue pagine cesellate si sofferma sui dettagli, sugli aspetti più

intimi delle anime costrette a un viaggio inumano, nell’assurdità che solo

una logica distorta può accettare. Un’intimità fatta di miseria umana, di

lotta per la vita, minuto per minuto, secondo per secondo ma senza

diventare mai mera cronaca.

Józef Czapski è stato pittore, scrittore, esperto di letteratura e arte. Ha

collaborato alla rivista parigina “Kultura”. Imprigionato a Starobielsk, si è

miracolosamente salvato e ha poi testimoniato sui crimini sovietici con la

sua vita e libri come “Wspomnienia starobielskie” e per l’appunto “Na

nieludzkiej ziemi”. La prima opera fu pubblicata con il titolo di “Ricordi di

Starobielsk”, correva l’anno il 1945 e anche il nome dell’autore fu

italianizzato, diventando Giuseppe Czapski.

Fu un maggiore dell’esercito polacco e e co-fondatore della rivista parigina

“Kultura”, ovvero, ambasciatore non ufficiale dell’indipendenza polacca.

Tadeusz Nowakowski, giornalista della Rozgłośnia Polska RWE, si è così

espresso per omaggiarne la memoria: “È venuto da noi un pensatore, un

osservatore sensibile dell’anima umana, un idealista disinteressato e

premuroso. Era alto e davvero spiccava sopra la testa, non solo in senso

letterale. Era affascinante per la sua erudizione e la sua eleganza spirituale.

I francesi interessati alle questioni polacche sapevano che non era Jerzy

Putrament a rappresentare le idee e le aspirazioni del suo paese, ma

l’emigrato Czapski, ufficialmente non considerato nell’Est”.

Józef nacque il 3 aprile 1896. La madre era di origine austriaca. Studiò la

cultura polacca e si considerava, in maniera decisamente pionieristica, un

europeo. In alcune sue pagine autobiografiche ha raccontato la sua infanzia

trascorsa in famiglia tra governanti francesi e tedesche. Czapski è stato un

artista versatile, apprezzato per la sua abilità nella scrittura e nella pittura.

Le sue opere sono sì testimonianza della bellezza dell’arte, ma anche della

realtà storica e politica della sua epoca.

Il 3 aprile, il suo compleanno, per un crudele scherzo del destino diventerà

anche l’anniversario del primo convoglio di prigionieri polacchi del campo

di Kozielsk giustiziati a Katyn. Nell’autunno del 1939, fu fatto prigioniero a

Chmielek, nei pressi Biłgoraj, all’epoca occupata dall’Armata Rossa. Da qui

fu mandato nel campo di prigionia di Starobielsk.

“Na nieludzkiej ziemi” racconta la sua esperienza in URSS e i crimini

commessi dai sovietici. Czapski ha lasciato un’importante “registro”,

un’impronta indelebile nella storia dell’arte e della letteratura polacca.

In una sua intervista rilasciata alla storica Radio Free Europe, dichiarò:

“Questa terra disumana era la la Russia sovietica (…). Per quanto riguarda

Starobielsk e Katyn, devo tornare al momento in cui siamo stati gettati a

Starobielsk. Non sapevamo nulla, come ci avrebbero portato via di lì, ma in

quei campi non eravamo così infelici, perché vivevamo nella speranza che

le nazioni democratiche avrebbero vinto e allora qualcosa sarebbe

cambiato non solo in Germania, ma anche in Russia (…). E poi mi hanno

portato nell’ultimo o penultimo gruppo al campo di Pawliszczew Bor, che si

trovava in un palazzo antico. Vivevamo in baracche eccellenti. In ogni caso,

siamo partiti da Starobielsk in primavera e tutti avevamo di nuovo

illusioni.”

Il 10 febbraio 1940 iniziò la deportazione di massa di polacchi in Siberia. Si

stima che circa 140.000 persone furono deportate in Unione Sovietica. Molti

di loro perirono durante il percorso forzato, altri non fecero mai ritorno a

casa. Tra i deportati figuravano, principalmente, le famiglie dei militari, dei

funzionari, degli impiegati forestali e delle ferrovie che abitavano le aree

orientali della Polonia prebellica.

L’URSS effettuò queste deportazioni contro i suoi nemici politici, avendo la

possibilità di utilizzare migliaia di persone come manodopera gratuita. Il

lavoro massacrante nella taiga siberiana con temperature che raggiungono

diverse decine di gradi, la fame e le malattie uccisero molti esuli. L’inizio

delle deportazioni di massa permise ai sovietici di annettere le province

orientali della Repubblica di Polonia, sancito da un protocollo segreto

allegato al patto Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939. Le deportazioni di

centinaia di migliaia di polacchi furono decise dai massimi rappresentanti

del potere sovietico – Joseph Stalin, Lavrentiy Beria, e Vyacheslav Molotov.

Gli abitanti dei confini orientali venivano spesso sorpresi dai sovietici di

notte o all’alba, e quindi costretti a fare le valigie cercando di portare con

loro tutto il necessario. Come si è già detto, spesso venivano deportate

intere famiglie. Gli sfollati venivano indirizzati alla più vicina stazione

ferroviaria, dove ad attenderli c’erano dei vagoni non coibentati. Il

sovraffollamento, il freddo, le pessime condizioni sanitarie e la scarsità di

acqua potabile hanno provocato una percentuale significativa di morti

durante le settimane di trasporto.

I cittadini polacchi furono deportati negli oblast di Arkhangelsk, Sverdlovsk

e Irkutsk. I sopravvissutti al trasporto coatto venivano poi condannati ai

lavori forzati. Secondo le stime riportate dalle autorità polacche in esilio, a

seguito delle deportazioni organizzate nel 1940-1941, c1 milione di civili

finìnei gulag siberiani. I documenti sovietici ne riportano soltanto 320.000.

Alcuni di loro riuscirono a fuggire dai campi di lavoro grazie all’esercito del

generale Władysław Anders formatosi in URSS. A dire il vero, c’era anche

un altro modo per i lasciare la Siberia, cioè unirsi Tadeusz Kościuszko ,

divisione ispirata e creata dai comunisti polacchi e, con il consenso di

Stalin, ma questa è un’altra storia.

Le deportazioni della popolazione polacca in profondità nell’URSS nel 1940-

1941 non furono le ultime. Dopo che l’Armata Rossa penetrò nel territorio

della Polonia occupata dai tedeschi nel 1944.

Leggendo alcuni passaggi di questo libro mi è tornata in mente una

conversazione avuta un po’ di tempo fa, a Vilnius. Ebbi modi di parlare coi

nipoti di alcuni deportati lituani che riuscirono a sopravvivere alla loro

Siberia, perché, come affermavano, erano maggiormente abituati a vivere

in condizioni estreme, in modo semplice. Ricordo che tutti loro portavano

un fazzoletto, nel taschino, come i nonni insegnarono. I fazzoletti di stoffa

grezza, bianchi a intrecci visibili, erano utilizzati per pulire, filtrare l’acqua,

il più possibile. Cosa che i soldati di città ignoravano, ad esempio. Dubito

della loro originalità, credo che li indossassero più per ricordo che per altro,

a perenne testimonianza, ma non si sa mai.

Questa Terra disumana è un libro di contrapposizioni, anche perché

la cultura russa aveva tracce profonde nell’autore. Infatti Czapski, denuncia

un sistema, quello del regime sovietico dove “l’uomo” o per meglio dire, il

nemico, “non conta nulla”. Dove tutti soffrono per un governo che ha “addestrato le persone alla crudeltà disumana, all’ubbidienza cieca, a

eseguire i compiti a prezzo del sangue e a dispetto di tutto ciò che all’uomo

è caro, alla delazione obbligatoria”.

Tra sommersi e salvati, l’autore riconosce un’innata spiritualità al popolo

russo e la ricorda nelle parole spese per i contadini, le persone più semplici,

quelle legate alla terra, che lanciavano ai polacchi prigionieri, un po’ di

cibo, in un semplice tentativo di soccorso muto ma non mutuo, nel dare

speranza senza riceverne.

Józef Czapski fu liberato dal campo di Griazovets nel 1941 in virtù

dell’accordo Sikorski-Majski e si unì all’esercito di Anders a Tockoje.

Józef Czapski

La terra inumana

Traduzione di Andrea Ceccherelli, Tullia Villanova

A cura di Andrea Ceccherelli

Biblioteca Adelphi, 743

2023, pp. 459

isbn: 9788845937521

Temi: Letterature slave

24 marzo, il santo del giorno San Gabriele dell’Addolorata

San Gabriele dell’Addolorata, nato Francesco Possenti il 1º marzo 1838 a Assisi, in Italia, era il decimo figlio di una famiglia aristocratica. Fin da bambino mostrò una grande devozione per la Vergine Maria e dimostrò un forte desiderio di consacrarsi alla vita religiosa.

All’età di 18 anni entrò nell’Ordine dei Passionisti e prese il nome di Gabriele dell’Addolorata. Gabriele visse una vita di preghiera, penitenza e umiltà, cercando sempre di imitare la passione di Cristo. In particolare, aveva una grande devozione per la Passione di Gesù e la Madonna Addolorata.

Durante la sua vita religiosa, Gabriele fu descritto come un giovane semplice e modesto, ma anche molto intelligente e istruito. Era anche un abile musicista e suonava il pianoforte e il violino.

Nel 1859, un’epidemia di colera colpì il suo convento e Gabriele assistette i suoi compagni di ordine e le persone della comunità malate, rischiando la sua stessa vita. In seguito, Gabriele si ammalò a sua volta e morì il 27 febbraio 1862 all’età di soli 23 anni.

Gabriele è stato beatificato da Papa Pio X nel 1908 e canonizzato da Papa Benedetto XV nel 1920. È conosciuto come il patrono dei giovani studenti e degli studenti universitari, nonché dei malati di tubercolosi e di coloro che lavorano nella prevenzione della tubercolosi.

La sua festa liturgica cade il 27 febbraio, il giorno della sua morte, ma in molte regioni italiane, tra cui la sua Umbria natale, la festa è celebrata il 24 marzo, giorno in cui le sue spoglie furono traslate nella chiesa di Isola del Gran Sasso, dove si trovano tutt’ora.

Scampoli di un’intervista


In realtà il titolo è stato l’ultimo dettaglio del libro, posso dire che è nato da sé, come il libro stesso in realtà. Una volta finita la prima stesura, l’editore, cioè Gordiano, mi ha semplicemente richiesto di utilizzare, per ovvi motivi, la parola Ucraina e di getto, così, senza pensarci troppo, mi è venuto fuori “Appunto una guerra”. Vorrei ricordare che, inizialmente, tutto ciò veniva definito come un’ “operazione speciale e non come una guerra, per l’appunto. Inoltre, tra le tante figure che hanno attraversato, a forza, questa dolorosa vicenda c’è anche una famiglia italo-ucraina che vive in Finlandia. Parlando con loro si è creata la definizione, imprecisa ma spontanea, di appuntare, prendere appunti. Però sì, appuntare è sinonimo di fissare e, alla fine ho cercato di fissare su carta tante cose di questa esperienza, per non dimenticarla. La vita scorre fuori dai margini, il sottotitolo, è invece una frase presente nel libro che ben descrive il tutto.

– Vuol presentarci il protagonista del libro? Cosa spicca maggiormente in lui e perché la scelta di raccontare proprio la “sua storia”?

Ho raccontato o per meglio dire “Mi ha raccontato” la sua storia per far sì che non vada dimenticata. Nelle poche dediche che feci a suo tempo sul mio libro, uscito ormai anni fa, cioè “Eco a perdere”, utilizzavo un’espressione particolare “Affinché nessun’ eco vada perduta”. Questo è un po’ il mio percorso letterario. Quando un anno fa partii per la Polonia non sapevo davvero cosa aspettarmi. Partii perché sapevo che, forse, quel mondo a me cosìvicino, che ho sempre amato, non sarebbe più esistito. La guerra è distruzione, lì dove arriva. La stessa Polonia che conoscevo io è molto cambiata, ha risposto in maniera decisa e forte, aiutando i rifugiati, facendo del suo meglio. Il protagonista del libro è l’insieme di tante persone incontrate, di piccoli dettagli rubati da ognuno di loro. Realtà che non devono andare perdute

– Intorno a Yosyp ruotano altri personaggi secondari, sia maschili che femminili. Ce li può presentare?
Lei è particolarmente legato a uno fra essi?
Non vorrei dimenticarne nessuno, comunque Adam, Mila e Margot sono sicuramente quelli più vivi all’interno del romanzo. Adam è una figura paterna, un essere mitologico, una persona che pur rimettendoci tralascia il rancore e cerca di fare del bene di tenere su il morale del popolo. All’epoca, soprattutto a Przemyśl, c’era di tutto (ci arrivò anche Salvini). C’erano tanti volontari, pizzaioli, parrucchieri, venuti da tanti luoghi a cercare di fare del bene. Adam è un po’ tutti loro. Margot è una ragazza che incontrai in un bar. Inutile dire che attirò la nostra attenzione perché piangeva, pianse per mezz’ora dal nostro arrivo e purtroppo, pianse anche quando ce ne andammo. Sono ancora in contatto con alcune di queste persona che ora si trovano in Turchia, in Austria e in Canada,

– Già nelle prime pagine si legge “Il pericolo più grande qui è la noia. Vero è che se non si muore in guerra, non si muore di sicuro di noia. La noia però ti assale ed è difficile credere, sperare in qualcosa o in qualcuno in questa situazione dove si è costretti a dipendere solamente dagli altri…” Queste parole riportano ad una situazione d’immobilità, di dipendenza dagli altri …perché si è profughi e null’altro si può fare. La fuga dalle proprie terre è solo questo o include altre sofferenze?

Non è solo questo ma nella fase iniziale è sicuramente questo perché nessuno riesce a pensare a un’entità estratta come il domani. Si è grati di esseri vivi, ma si è costretti a vivere in un presente infinito. Un presente fatto di dipendenza e di impotenza. Stranamente, la sofferenza del “domani” se mi è consentito chiamarla così, arriva in una seconda fase. Con il trascorrere del tempo si realizza una nuova condizione. Ci si cristallizza. Perdonatemi la licenza. Il passato rimane cristallizzato in un tempo che non scorre più o che non scorre come dovrebbe. Ho visto persone scoppiare a piangere, apparentemente senza motivo, perché ricordavano cose, attimi, luoghi andati perduti per sempre. Consapevoli di aver perso tutto rendevano di cristallo le loro lacrime. Forse è troppo retorico, ma al momento non saprei dirlo in maniera diversa

– Lei parla di sentimenti, ad esempio del pianto che definisce “condizione comune”. Questa manifestazione di tristezza che valore ha nel protagonista, un uomo di quarant’anni?
Direi che la nostra società piange poco e male. Piange per cose prive di valore, piange per delle cose appunto. Tendiamo a dimenticare troppo in fretta le persone. Siamo una società narcisista che si specchia su se stessa e offusca troppo l’altro. Amiamo i vip, gli influenzer, seguiamo cioè che invidiamo e dimentichiamo gli ultimi. Gli ultimi diventano quell’altro che non ci interessa, così come i sentimenti sono sempre più relegati ai margini. L’attuale condizione comune, a livello umana, è misera, anche a quarant’anni. Penso che siano molti i motivi per piangere, sopratutto se si è deciso di non fare nulla al riguardo,



– In questo suo romanzo lei va al passo con i tempi, non solo quelli storici. Attraverso Yosyp racconta dell’amore per i libri ma tratta anche di una realtà digitale. Vuol dirci il suo pensiero e quello del protagonista?
Yosyp lo sa, non è un luddista, forse non ha mai conosciuto il luddismo. Yosyp è un dinosauro analogico e in questo lo invidio. Io sono costretto a digitalizzarmi a digitalizzare ogni cosa. Un mio compagno delle medie che ha una falegnameria un giorno mi disse “Io volevo solamente lavorare il legno, adesso mi tocca usare il computer” e questa frase mi sembra molto significativa. In questo un po’ invidio Yosyp perché non ha più nulla da perdere, può permettersi di mancare un aggiornamento mentre noi siamo costretti a rincorrere ogni capriccio digitale e non per FOMO, la paura di essere tagliati fuori da una società che include tutto, ma perché viene reso impossibile fare qualsiasi cosa in modi diverso. Il progresso è mettere a disposizioni alternative non imporre. Lo stesso atto del rendere digitale, liquido, perdonatemi il termine, l’industria culturale ha finito con il degradare il tutto. Un disco è “uguale” a un “quadro” che è uguale a un “film” che è “uguale” a un libro perché, in qualche modo decontestualizzato. Decontestualizzato perché, mi spiego meglio, riprodotto dallo stesso dispositivo, lo smartphone. Avere tutto a portata di mano, 24 ore su 24 ore, porta a un consumo generico, per lo più inconsapevole. La società dell’intrattenimento perenne nasce da qui, Tik Tok e Onlyfans sono il nostro presente, i libri il passato. Già la semplice lettura di un libro è diversa da quella su schermo digitale. Recenti studi dimostrano che quest’ultima è più dispersiva (ci volevano degli studi? Direbbe Yosyp). I cinque sensi si stanno perdendo o li stiamo modificando. Sapori, odori e tatto. Soprattutto il tatto. Passiamo le nostre giornate a toccare plastica. Questo ci sta cambiando? Se sì, come? Il discorso è sicuramente molto ampio e non vorrei essere tropo dispersivo. Il futuro è la tecnologia ma l’essere umano non deve assolutamente diventare una sua periferica.

– C’è ancora spazio per la speranza per Yosip e per le tante persone come lui? E’ forse la scrittura ad avere maggior potere salvifico?
Sono tempi di sconforto, Yosyp stesso lo sa bene e non nutre grandi speranze. Si scontra con realtà e con persone a lui incomprensibili. Per lui la scrittura non è salvezza, non c’è nulla in fondo da salvare, ma semplice testimonianza.

Poveri cuori umani che battono dappertutto



A due punti opposti delle loro vite si incontrano. Entrambi erano destinati ad altro, ma il loro percorso andò lì a intrecciarsi. Fuori dalle vecchie costruzioni murarie che delimitavano il perimetro del cimitero la città stava morendo. Cracovia moriva con le sue magie, la lancia di Longino, il drago Krak, il mago Twardowski e la pietra indù di Shiva che in passato salvo la città da eventi catastrofici. La città la fuori moriva perché lì dentro, in quell’antico cimitero ebraico c’era la vita coma mai c’era sta prima di allora e come mai più sarà più.
Lui, per rispetto, indossava un cappellino da baseball all’americana. Bisogna coprire la testa in certi luoghi per scoprire il cuore. Pensava guardando lei, fasciata im una sciarpa verdina, lisa, per un contrasto che la rendeva ancora più bella agli occhi.
A parlare era lui, stranamente. Fino ad allora era la conversazione non era stata il suo dominio. Tutto il tempo. Da quando si erano incontrati al ristorante. Lei era arrivata con quel cappotto a scacchi, bianco e nero. Vuoi fare una partita disse lui? Cosa? Non capì lei. Il cappotto? Gli scacchi. Incalzò. Lei sorrise e tutto finì in quel momento. Si spensero per sempre i rintocchi delle campane di Sigismondo, chiusero gli occhi le statue delle chiesa di Pietro e Paolo e la dama perse l’ermellino, all’epoca all’interno del Wawel. Quella conversazione diventò, almeno per lui, la cosa più importante di quella città. Ogni evento lì accaduto o in procinto di avvenire, non aveva più importanza. Le offrì un caffè, ma solo dopo averle chiesto il permesso di poterlo fare. Quel giorno era andato lì per lavorare. Si occupava delle gestione a distanza di alcuni siti online. Caporalato innovatico. Traduceva e scriveva testi che dovevano catturare l’attenzione di altri occhi. La scrittura era la sua vita. Lo era sempre stata. Quel che passava sotto lo sguardo, almeno in forma scritta, sembrava avere più valore. Dal caffè passarono a passeggiare per il quartiere ebraico, riqualificato per il turismo internazionale. Le basse case che una volta ospitavano studenti di Cheder e gli studiosi di Torah, lasciavano ora il posto ad edifici con piani rialzati che ospitavano bar, ristoranti, kebab e negozi di estetiste.
Percorsero ulica Miodowa, la via del miele, che taglia tutto il quartiere ebraico da una parte all’altra, fino al cimitero. Fu chiamata così perché ospitava principalmente i commercianti di miele. A lui piaceva pensare che fosse una metafora perfetta della vita, che alla fine è la dolcezza a portarti al sepolcreto. Tutto questo però non poteva dirlo.
Pensieri frullavano, passando da una lingua all’altra da una situazione all’altra. Aveva proposto di fare due passi. Una passeggiata senza meta, un’altra rappresentazione perfetta della vita quando non si sa dove andare. Lei accettò perché aveva tempo e aveva cambiato idea su di lui, come ammise qualche tempo dopo.
All’inizio lo trovava antipatico e presuntuoso. Quel suo modo di fare le sembrò scortese. Tutte quelle domande erano punture di spilli nel suo essere stratificato.
Non era abituata a comunicare, o almeno a comunicare in quel modo. L’antipatia andò scemando quando si arrese all’empatia. Aveva trovato qualcuno che l’ascoltava. Non era abituata. Lo sguardo fisso l’aveva messa a disagio. Il suo non guardare il cellulare a ogni notifica in arrivo le era sembrato strano. Dopo il caffè, aveva preso un prosecco e una porzione di tiramisù. Era un freddo pomeriggio di autunno e la mente, il cuore e il corpo avevano bisogno di attenzioni calorose.
Nella conversazione aveva scoperto poco di lui. Non era abituata a fare domande. Non è di certo facile mostrarsi interessati a qualcuno che non si conosce.
Così lei le aveva raccontato parte della sua vita immaginandosi che il percorso esistenziale di lui l’avesse portato nella ragioneria. Tutte quelle penne sul tavolo, i fogli, il computer, il cellulare che strizza e buffa l’aria ininterrottamente potevano andare bene solo per un accountant, un ragioniere per l’appunto.

Di lui lei sapeva che era italiano che era in quel ristorante, italiano per l’appunto, per fare qualche lavoro online e che era su una app di incontri per conoscere qualcuno. Non le piaceva il suo stile nel vestire. Un paio di jeans, una felpa, un gilet smanicato e un cappellino da baseball.

Di lei lui sapeva che aveva mangiato uno zurek, una zuppa che lui non amava molto, un caffè, un bicchiere di prosecco e un tiramisù. Lei era ucraina con antenati polacchi ed era in città per qualche motivo che ancora non le aveva rivelato. Aveva una figlia, non con lei al momento.

Tra di loro non c’erano chilometri e nazioni ma una città che pulsava per animi differenti. L’est, come il mondo, stava cambiando. La cultura lasciava sempre più il passo all’economia. L’animo dell’uomo andava spegnendosi. Non si giocava più a scacchi nei parchi, non si leggevano libri, ma si controllavo tassi di forex e azioni online dal display del telefonino. Le città stavano diventando sempre più uguali, viste da dietro uno schermo e accompagnate da suoni omogenei che avevano accomunato tutto.

Così lei conosceva una città, lui un altra e in mezzo c’erano tutte le loro differenze che pian piano andavano a scoprire nella passeggiata lungo la via del miele. Lei notava l’estetista al piano rialzato. Lui il caffè letterario che avrebbe voluto visitare. Non avrebbe mai potuto funzionare, disse loro la città che stava lì, ferma a guardare, avendo congelato tutte le sue vie, facendo soffiare all’improvviso un vento gelido da una parte e dall’altra.

Ripariamoci un attimo

Dove

Qui

Ma è un cimitero

Lo so

Non è strano

Tutto qui è strano

Delle alte mure proteggevano l’interno. Una targa bilingue, polacco ed ebraico, era messa lì per ricordare qualcosa. Un cartello decisamente più recente ricordava l’obbligo di coprirsi il capo.

Entrarono e cominciarono a passeggiare per quei vialetti.

L’enciclopedia della vita giaceva ai loro piedi.

Gente che era stata amata, odiata, uccisa, che aveva lavorato, studiato, fatto figli ora era lì.

Piegata dall’esistenza. Accartocciata dalla storia. Dimenticata dai più visto lo stato di incuria in cui versavano diverse tombe.

Posso farti una foto?

Le chiese

Non sa perché glielo chiese

Qui?

E perché?

Perché è bellissimo

Ma è triste

Per questo è bellissimo

Lei esitò poi disse qualcosa di inaspettato: No, preferirei di no.

Tutti si sarebbero aspettati un sì.

Il centro commerciale di Galeria Kazimierz, il monumento ai lavoratori stakanovisti che ricorda Mazinga Z in realtà, il distributore di benzina della orlen che confinava con le mure cimiteriali, tutta quella parte della città si stava aspettando un sì che invece non arrivò. La palestra e l’acqua fit, i ristoranti self service, Pizza Hut, il rivenditore ufficiale Harley Davidson si mostrarono particolarmente interessati all’evolversi dell’evento.

A lui quel no piacque.

Non ci vide un occasione.

Non era una di quelle persone che vedono in eventi negativi delle possibilità.

L’errore e un errore. Non possiamo stare lì a raccontarcela. Gli errori esistono, capitano, si vive per errore, si muore per errore, si conoscono persone per errore e si finisce con l’amare delle persone anche per errore.

Avrebbe potuto rubarle una foto al cimitero. Scattare un’immagine e rubarla al tempo per poi conservarla o perderla, ma come testimoniano tutti gli alberi e le pietre che si stagliano e si addormentano da quel lato della Vistola quotidianamente, non esiste nessuna foto di quell’attimo. A conoscenza di tutto ciò ci sono solo due cuori umani che battono dappertutto, mentre a ricordarselo ormai ne è rimasto solo uno.

Lo sguardo del tempo, il senno di poi, sono fiumi di altre storie riversate che vanno a coprire lacrime e altre storie. Chi interagisce al momento ti vede per quel che pensa che tu sia, non sapendo nulla invece. Non ha conosciuto chi eri, non è interessato a cosa sei, ha una noncuranza completa sulle cose future.

All’origine della storia mancava stratificazione.

Lui lo avrebbe compreso solo in seguito. Anni dopo.

Lei aveva già stratificato diverse esperienze.

Tutto sembrava liscio e primitivo, come i pannelli di legno che rivestivano le pareti del locale. Le candele che illuminavano proiettando oscillanti fasci di luce, disposti a piegarsi a ogni passo di ballo.

Ordinò una birra per lui e un bicchiere di vino rosso per lei. Consapevole che in quel tipo di locali la peggiore birra a disposizione sarebbe sempre stata meglio del più costoso dei vini presenti in listino.

Non lo so disse a lei.

Non ricorda perché.

Forse perché quando le chiese se volesse qualcosa da bere e lei rispose del vino, vide i suoi occhi tremolare come le fiamme delle candele.

Tutto si sarebbe spento di lì a poco.

Il vino poi, il vino rosso, sicuramente era più romantico di un boccale di birra.

Era già stato in quel locale, qualche giorno prima, con un suo amico, per fare una bevuta. Sapeva benissimo come funzionavano le cose, in maniera decisamente rustica e si sorprese, a scoprire, che quella sera, tutto appariva nuovo, come se fosse la prima volta.

Si era già levato il giaccone, la felpa ed era rimasto in camicia.

Cominciava a fare caldo.

La colonna sonora era vintage, roba anni 80, ritmi conosciuti e facili da seguire mentalmente. Ballavano tutti, era un mercoledì, la settimana presentava ancora qualche fatica ma nell’aria sembrava esserci un motivo per festeggiare.

Ricorda che le chiese di ballare e non sapeva che aspettarsi. Nel senso, dopo il bacio rubato sapeva benissimo che avrebbero ballato, ma con quale risultato? L’alchimia avrebbe funzionato? Non si trattava di muovere solo le labbra. Il ballo necessità di più fattori di cui lui era sicuramente sprovvisto.

Sicuramente era carente in allenamento. Non ballava da anni, se mai avrebbe potuto definire ballo le attività motorie scandite da un ritmo musicale effettuate anni prima.

Ma il ballo servì.

Eccome se servì.

Se lei prima sembrava troppo per lui, troppo bella, troppo sinuosa, troppo magra, troppo sorridente, ora era decisamente più per lui. Lei non aveva nessun senso del ritmo.

Non sapeva cantare, ne tanto meno ballare, come la figlia avrebbe confermato in seguito.

Appariva goffa, slanciata. Avete mai visto un cigno ballare? Bianco, candido, dal collo lungo e dal becco sinuoso, non è un essere che si è adattato allo spirito del ballo anzi.

Così appariva lei.

Nel suo gesticolare degli indici.

Nel muovere i piedi.

A lui tornò in mente Marinela.

Una sua ex rumena che lo aveva mollato per un camionista sparendo con una telefonata. Chissà se era ancora su quel camion, si chiese.

Comunque non sapeva ballare nemmeno lei.

Scherzando le disse, che le donne dell’est più che ballare, schiacciano le formiche coi piedi.

Non amava generalizzare.

Non amava un sacco di cose.

Non amò nemmeno il pestone che, ballando, ricevette da lei.

Non disse nulla.

Chiese il permesso per andare in bagno.

Zoppicante, laudicante.

Temporaneamente andate nella condizione che lei le aveva imposto, curante o meno del loro destino. Condizione che tornerà molto spesso da questa volta, che fu la prima, in poi.

La città stava diventando un’enciclopedia di eventi. Ogni tappa aveva una voce, una nota.

Tutto da approfondire, ma in fondo non gliene importava abbastanza, persa com’era in un mercoledì non molto diverso da tanti altri.

La città stava diventando un’enciclopedia di eventi. Ogni tappa aveva una voce, una nota.

Tutto da approfondire, ma in fondo non gliene importava abbastanza, perso com’era in un mercoledì non molto diverso da tanti altri.

Lituania- Cina- Usa, la guerra del telefonino

Le compagnia telefoniche hanno svolto un ruolo importante nella storia recente dell’Europa Occidentale. Si dice che gli Usa avrebbero avuto il controllo delle linee telefoniche della PRL e, in caso di necessità, avrebbero provveduto a staccare la linea, isolando il paese. Questa storia, vera o falsa che sia, sarà sicuramente conosciuta anche in Lituania, paese che confina con la Polonia, vista la grande importanza che la piccola nazione baltica sta dando alla difesa delle sue linee telefoniche.

Certo, il mondo è cambiato, la tecnologia continua a fare passi da gigante, le realtà sono sempre più connesse e i problemi nel mondo reale possono quindi tranquillamente arrivare anche da paesi distanti migliaia di chilometri..

Così, quello che a occhi tecnici sembra essere un mero abbaglio, in realtà, potrebbe nascondere dei retroscena geo-politici molto più complicati. Restando nell’ipotesi di complotto* (questo il nome della rubrica che state leggendo), quello a cui stiamo assistendo a distanza, da spettatori distratti anche se interessati, non è una semplice disputa tecnologica visto che la Lituania è da poco entrata a far parte della lista di paesi non graditi a Pechino.

https://www.dday.it/redazione/40653/smartphone-xiaomi-e-censura-la-lituania-ha-preso-un-abbaglio

La Cina ha quindi messo nel suo mirino il paese membro dell’Unione Europea e della NATO. Le relazioni diplomatiche, e non solo quelle, tra il Dragone orientale e Vilnius si stanno deteriorando sotto gli occhi spenti dell’Europa occidentale.

L’autorizzazione concessa a Taiwan di aprire un ufficio di rappresentanza nella capitale baltica, con conseguente volontà lituana di aprire un suo ufficio corrispondente a Taipei, ha segnato un momento di profonda crisi tra i due paesi. Pechino si è opposta fin da subito all’uso del termine “taiwanese” nel nome dell’ufficio aperto in Lituania. In realtà nessuno dei due uffici commerciali implica il riconoscimento di Taiwan come stato sovrano. Anche altre nazioni hanno stretto accordi simili, Stati Uniti in primis. Washington ha aperto un Istituto americano a Taiwan: un ente privato sponsorizzato dal governo a stelle e strisce, composto da funzionari del Dipartimento di Stato. Inoltre Cina e Washington hanno recentemente trovato un accordo per far tornare in patria Meng Wanzhou.

Ecco, al momento la Lituania, sembra essere rimasta sola in Europa a far fronte alla Cina, e non solo. Infatti, quello con Pechino non è l’unico problema internazionale che il paese baltico sta fronteggiando. Da quest’estate il paese baltico si è trovato ad affrontare l’arrivo di numerosi profughi proveniente dalla Bielorussia, senza un intervento tempestivo da parte dell’Unione Europea.

*Titolo di un vecchio film con Mel Gibson