To Jest- Capitolo 7

1957

Quello che guardo è un quadro.
I quadri sono fatti per essere guardati.
Si guarda quello che c’è nella cornice, vero.
Ma si guarda anche quello che la cornice tiene fuori, come da volontà del pittore.
Ammettendo la verità a me stessa mi confido che poi, questo dipinto scuro non è nemmeno tanto famoso, visto che si è perso, con il passare del tempo, da qualche parte su una parete anonima di un lontano museo della fredda Berlino.
La tela è dipinta in sfumati cieli e in abissali mari, purificati dal giallo scolorito di un sole troppo alto per scaldare.

Ho visto questo quadro una volta sola, tanto tempo fa, anche se il tempo non si misura in sacchi, buste, barili, bottiglie o borse dell’acqua calda, in una fotografia riprodotta su qualche catalogo d’arte autorizzata.
Di questi tempi serve un’autorizzazione per tutto, anche per la vita e figuriamoci per l’arte, penso mentre ora me sto seduta al tavolo dando le spalle al futuro timbrato.

– Legno delle foreste di Rzesow– questo è il primo pensiero che arriva a galleggiare nella mia mente. Le dita grattano nervosamente la superficie.
Da qui in poi è un balzo nella catena dei pensieri.

– Dalle venature del legno sembra che si possa ancora risalire agli anni dei fiocchi di neve degli inverni passati. La neve trasforma la terra in una nuvola immensa, coprendo tutto, anche la nostra immaginazione, e così il cielo e la terra finiscono giù. I bambini sono maestri, nell’ammirare questa danza.
Sul legno fisico e sulla neve mentale giace un foglio di carta.
Un foglio giallo e grezzo, anche questo come tutto del resto, autorizzato dalla volontà della Repubblica.
In fondo si tratta sempre di una carta che viene dal legno.
Per scrivere una poesia, mi sembra, ci vuole per forza un albero.
Poesia della natura.

– Salvo autorizzazione.
Vorrei sorridere, ma finisco con il bere.
Un bicchierino di vodka.
È buona educazione che quando si ricevono ospiti, da queste parti, si offra sempre qualcosa da bere.
Ho aperto la migliore bottiglia, proveniente dalla mia piccola riserva personale.
La migliore che avevo in casa, lì, conservata in mezzo ai libri e ai manuali su come vivere, o cosa fare per vivere, per essere un buon figlio di questo stato.
Ovviamente se è buona, la vodka, è solo perché non è una di quelle autorizzate dalla Repubblica ma una di quelle distribuite dal secondo canale, quello delle persone non ufficiali.
Abbiamo inventato anche la non ufficialità nell’essere, oggi cercano di dare una gerarchia all’anima.
Ho aperto la mia bottiglia migliore pensando al rischio che hanno corso tutte quelle persone per distribuire qualcosa di proibito.
La vodka è come i libri, l’alcool che brucia lo stomaco come le poesie, le emozioni che scaldano clandestinamente l’animo di questi uomini messi da parte.
Ci credevo ciecamente.
Ma solo i ciechi possono davvero credere a qualcosa.
La vista è dubbio.
La vista mette tutto in dubbio.
Quindi brindo solennemente.

– Alla nostra.

E mentre il bicchiere è ancora levato in aria una voce lontana sembra rispondere

– Alla tua.

Già, ho ricevuto la visita di una vecchia amica.
La mia amica è una poesia, compagna di ideologie.

L’ospite poetico è di casa, ma questa volta sembra davvero finire per comportarsi in maniera diversa, inusuale nella sua immobilità: se ne sta lì, ferma, silente dall’altra parte del piccolo tavolo di legno, a qualche venatura di distanza, sepolta dalla neve del passato.
Questa separazione mi ricorda una fantasticheria di qualche tempo fa.
Una di quelle visioni giovanili che segnano le notti prima degli esami, tremolanti ed eteree nelle dissolvenza del mattino.
Dalla finestra entra una falena, attratta dal calore di un cuore spaventato che batte nell’oscurità.
– È un segnale anche questo, – codifico – un ‘immagine che squarcia l’oblio di questa notte.

Sogno di essere al mare, persa in un panorama esotico.
Non è il mare di Elbląg, autorizzata località turistica della Repubblica.
Sogno di essere in un qualche paesino bizzarro come Witold nella lontana Argentina o come Sławomir a Chiavari.
Solo ora però mi accorgo che nel dizionario, nelle parole dell’uomo, non esiste un’azione appropriata per la poesia. Davvero, ancora oggi non si “poesiagisce”.
La poesia si fa, si scrive, si recita e si interpreta ma è imprigionata, lì dov’è, dal non avere un verbo tutto suo.
Come una scimmia in cattività. Incatenata al tavolo, alla Repubblica e alla vita, ma allora, amica mia, non è forse questa la storia dell’uomo? Guardo così, con la lentezza di uno sguardo invernale, il panorama che si staglia lì fuori da quel taglio nel muro che è la finestrella. Bianco di neve.
E come un fiocco cade il mio sguardo sul foglio.
Giallo.
Affido al destino la mia poesia mentre c’è già chi si prende fin troppa cura della mia vita, la Repubblica Popolare Polacca, che si occupa della vita di tutti i suoi bravi cittadini.

E forse, quella di una poetessa è una vita che vale di meno?

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