Nel frattempo ho perso un altro amico. Avevo progettato ieri, domenica, di stare a casa, in pigiama. A leggere, forse scrivere, ho sempre dei dubbi associati all’attività letteraria; guardare vecchi film facendomi scivolare sulla pelle l’indolenza domenicale, ma così non è stato.
Il risveglio ha avuto un sapore marcio, come solo il sangue e la morte sanno avere nella sonnolenza del settimo giorno della settimana dedicato alla gloria del Signore. Già che il Signore ci prenda tutti in gloria o che ci odi tutti perché odio le mezze misure. Che senso ha infatti morire a 39 anni…
In questo modo hai solo un grande senso di incompiuto che ti assale, ti resta e ti lascia lì. Tanto per capirci una vita spezzata così equivale e non essere mai riusciti a dire “ti amo” alla persona giusta. Non saprai mai come poteva andare… e infatti non è andata.
Con la scomparsa di Giancarlo mi sono stati strappati via tutti i ricordi, a morsi.
Di me non resta che un’anima masticata, a brandelli, sento il peso della saliva di Cerbero, il cane infernale. Una volta pensavo che mi sarei guadagnato il paradiso aiutando gli altri, ora ho smesso tutto, anche di pensare.
Non ho più quel pezzo di infanzia che abbiamo trascorso insieme. Forse il pezzo meno significativo di tutta la mia vita, solo formativo e a che serve essersi formati in questo tipo di società che confonde l’impegno sociale con la vita in palestra e il sogno del posto fisso?
Quanti calciatori avremmo perso se tutti loro si fossero messi a preparare i concorsi pubblici?
Galleggiano nella mia mente i film in vhs noleggiati e quelli visti al cinema, tipo “Abbronzatissimi”, quello resta una tua scelta Giancarlo, non è colpa mia se il tuo nome è rimasto associato ai cinepanettoni nella mia imperfetta memoria. Fluttuano le ombre dei sabati sera spesi al C64 di tuo cugino, Winter Games e altri titoli che nella mia memoria restano pixellati nei loro loghi. Gli screzi, le risate, le racchette che compravi dal Perra, assente anche lui ingiustificato nell’elenco delle mie presenze e no, mi spiace, la morte non è una giustificazione valida per esentarsi da tutto anche se ora, quello che resta è poco o nulla.
I miei ricordi.
Che non riesco nemmeno a spiegare in una lingua straniera come vorrei.
Ieri l’ho detto ad H. Si è dispiaciuta.
Vi siete quasi incrociati.
L’allagamento del bagno da parte del coinquilino di sopra ti ha portato qui, mentre noi eravamo al fontanino dell’Acqua Marcia. Buffo, proprio mentre stavo raccontando ad H. della corrispondenza di tuo cugino con un’amica di penna dell’est.
Lei scrisse che abitava in una regione dove esisteva, mi piace il termine esistere oggi, il più grande specchio di acqua dolce del mondo. Non so quale fosse. E lui le rispose, io abito ad Acqui Terme, lì dove c’è la fonte d’acqua più puzzolente del mondo, in proporzione ai suoi centimetri quadrati, già, l’Acqua Marcia.
Esistono le coincidenze o forse tutto è semplicemente destinato a marcire?
Dovevi sposarti a giugno, sicuramente non mi avresti invitato.
Non ci vedevamo da un pezzo.
Hai aspettato troppo.
Ho forse aspettato troppo anche io?
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Libertà di scelta
Il mondo è incredibile. Devi volerlo incredibile. Fatto concavo quando serve convesso e viceversa. Mezz’ora seduto di fronte a una scritta anti fascista, ma tutto si scolla e dimentica in fretta. Riportare a casa il senso di tutto ciò sarà impossibile o per lo meno difficile. Parole scelte anni fa che solo ora, tramite la via d’inchiostro dell’esilio, trovano la loro strada.
– Vuoi davvero rivedermi?
– Forse…
– Da che dipende?
Dalle costellazioni, dal calendario Maya andato a male, dalle maree, dall’orologio atomico di Houston in Texas, dalla galleria di neutrini del Cern di Ginevra scavata dai ministri della pubblica istruzione, dagli esodati, dai giovani choosy, dagli 80 euro che non ti spettano, dal gam gam style al pulcino pio, dai gol in fuorigioco della Juve, dalle polemiche di Benitez, dal wifi che salta sempre quando non dovrebbe, dalla morte di Kurt Cobain, dalle nuove labbra di Maradona, dal sole che si scaglia con violenza sul mio maglioncino invernale, dalle macchine in doppia fila, dai quindici minuti dal barbiere, dalla cronaca scambiata per storia, dai biglietti della lotteria, dal gratta e vinci, dall’aperitivo del venerdì sera con Piero, dalla colazione del sabato mattina con Ciccio, , dalle scommesse perse alla Snai, dal caffè con Robero e Andrea, dalla fatica della salita del Rocchino che diventa tristezza quando la fai in discesa, dalla voglia di evadere, dall’urgenza di capire, dalla necessità di accettarmi, dal tuo dono di accettarmi.
– Si, va bene, la vita è un gran casino, rivediamoci quando vuoi.
Klaus è il suo nome
Capitolo 1: Klaus è il suo nome
Fa caldo, la birra è calda e non c’è ombra per chilometri.
Questo è il suo unico pensiero mentre si asciuga la fronte grondante con le mani.
Mani solide, tozze. Mani nate per questo mestiere. Muratore.
Costruire un muro richiede tempo. Lui lo fa tutta la sua vita. Klaus è il suo nome. Vita da terra di confine. La Polonia di là. La Germania qui e l’altra Germania di là. Di là, oltre, c’è poi il resto del mondo, quello sconosciuto. Vive all’interno di un mondo piccolo e non sa cosa c’è al di fuori, si sente sì forte come Ercole ma non ha nessuna intenzione di passare al di là delle colonne. A lui non interessa la politica. Vuole costruire. Costruire è vita. Mattone dopo mattone. Muro dopo muro.
Quattro mura fanno una casa. Una logica elementare che aveva imparato in fretta. La politica, invece no. La politica da queste parti è anche morte. Conseguenza di vita che aveva imparato ancora più in fretta. Guardò la birra. Calda. Anzi, caldissima che sembrava piscio. Eppure ne sentì il richiamo. Un goccio non farà male e poi qui è tutta campagna tedesco orientale, se serve del concime farà il suo dovere in cinque meritati minuti di pausa. Mandò giù una golata. Sudò freddo poi posò la bottiglia nell’unico mezzo metro quadrato di ombra esistente, creato da lui, dal suo lavoro non ancora portato a termine ma rispettante della tabella di marcia. Klaus era un tipo preciso, poco fantasioso, ma curante dei dettagli, quasi maniacale. Per questo i suoi lavori erano apprezzati. Solidi manufatti di edilizia socialista, senza fronzoli ma capaci di resistere nel tempo, come l’ideologia di partita. Stava lavorando su un muro di cinta esterno che avrebbe protetto la casa dei signor Reilly. Protetto per modo di dire perché qui tutto era già al sicuro. Nessuno voleva entrare e nessuno voleva uscire.
– Klaus!
Gli sembrò di udire che qualcuno da lontano stesse urlando il suo nome.
– Klaus!
No, c’era davvero qualcuno che stava urlando il suo nome. Si guardò in giro e vide Franz venirgli incontro in bicicletta.
– Posa lì Klaus!
– Che succede? Astrid?
Non poteva che essere Astrid il motivo che aveva spinto Franz a lasciare il lavoro per venirlo a cercare. Astrid era il nome di sua moglie, incinta.
– Sta bene?
– Sì, tutto bene ma vieni via. Andiamo, che è ora!
– Ora?
Nonostante la sorpresa, conosceva già la risposta: suo figlio stava arrivando, stava per venire al mondo con una settimana d’anticipo. I dottori dell’ospedale avevano calcolato male, no, avevano calcolato troppo. Sì, i dottori dell’ospedale dell’Oder Spree erano stati generosi nei suoi confronti e gli avevano voluto dare più tempo. Era la natura ad aver accelerato. Suo figlio sentiva il richiamo della natura e voleva venire al mondo prima. Aveva fretta di vivere e questa si chiama gioia. Il nuovo arrivato porterà tanta gioia alla sua famiglia e al mondo. Questi erano stati i suoi ultimi pensieri prima di rivolgersi nuovamente a Franz:
– Andiamo.
Poi posa gli attrezzi attentamente in modo che non si rovinino e li lascia lì all’aperto, sicuro che domani saranno ancora lì, questo è un paese sicuro, nessuno vuole più di quel che ha. Inforca quindi la bicicletta.
– Fai strada andiamo
Dopo due pedalate si ferma
– Aspetta.
– Che succede?
– La birra!
– Di quella non ce n’è mai abbastanza.
Prese la bottiglia e la scolò tutto.
C’era da festeggiare.
– Ora possiamo andare.
Pedalarono per 10 minuti sotto il sole di agosto che taglia e affligge il vigore tedesco. Ansimanti e sudati arrivarono al cortiletto della casa. Scese dalla bicicletta di corsa. Non si preoccupò nemmeno di appoggiare il veicolo al muro, tanto che lo . lanciò nell’aria, facendolo cadere rovinosamente a terra. L’impatto del metallo pesante con la terra fu il primo suono, diverso dal rumore della cigolante catena della bicicletta, sentito in quella parte di mondo da dieci minuti a questa parte. Il telaio si ammaccò.
L’insieme delle azione di questo preciso momento fu come un gong mistico e universale. Il destino aveva suonato. Ora e qui. Klaus sembrò risvegliarsi dal torpore della birra e irruppe nuovamente sulla scena:
– Astrid! Astrid!
Nulla in casa c’era solo silenzio.
Nell’androne d’ingresso non c’era nessuno.
Non aveva nemmeno tempo o pensieri per togliersi e pulirsi le scarpe.
Entrò di corsa portando terra tedesco orientale proveniente dall’esterno in casa sua.
Si affrettò a salire le scale. Fece gli scalini due a due per fare prima, con slanci di gioventù che pensava di non aver più.
– UE
Un pianto di un bambino creò un altro mondo.
– Ue UE
Un mondo che si era già raddoppiato. Si affacciò alla porta e vide la moglie a letto. L’ostetrica stava tenendo qualcosa in mano. La moglie si accorge del suo arrivo e subito dopo sorride.
– Femmina- dice l’ostetrica.
– Femmina- ripete lui.
Il mondo avrà di che gioire
– Della vergine.
– Un ottimo segno.
– C’è bisogno di ottimi segni nella nostra nazione.
– Guarda che bella-
– Sì
– Che musino dolce
– Sembra un topolino.
– Già
– Come la chiamerete?
Astrid dorme, sfinita. Questa è una decisione che ora spetta solo a lui. Non ci ha voluto pensare per mesi, convinto che dare un nome a qualcuno che non c’è porti sfortuna ma ora lo sa. Ora sa il nome che ha sempre voluto dargli.
-Marienetta.
Marienetta come il nome del suo primo amore.
– Marienetta è un ottimo nome
C’è bisogno di ottimi nomi, fa eco il suo pensiero nella mente.
– Marienetta che sembra un topolino.
Marienetta Michi Jirkowsky
Libri, Lapis, Rivoluzioni Culturali e ci metto del mio
L’idea alla base di questo umile post mi è venuta ieri, in occasione del 25 aprile, giornata fondamentale per la vita culturale di questo paese che dovrebbe nutrire e nutrirsi di libri e di autori come Pavese, Fenoglio e Meneghello ma non solo..
Infatti, discutendo proprio ieri con un’artista belga/polacco tramite la magia dei social network, sull’importanza della resistenza, discussione partita da un link di Bella Ciao ( a proposito vi invito ad andare a vedere su You tube quante versioni ne esistono al mondo, compresa quella di Woody Allen), ma dicevo…si parlava, commentando virtualmente, in un esperanto casareccio, misto a polacco, italiano e francese, della possibilità concreta e reale di rivoluzioni più o meno pacifiche e, inevitabilmente, il discorso è caduto sull’importanza dell’arte, della cultura e dei libri in questi cambiamenti.
Inutile dire che l’esempio polacco è forse il più lampante caso di cambiamento senza guerra, aiutato da una grande cultura, sfociata nella ricezione di due Premi Nobel per la letteratura, del calibro di Czeslaw Milosz e di Wislala Szymborska, un un breve arco di tempo. Ma alla fine, tornando alla discussione precedente, l’apice, lo Chapeau, è arrivato ad una semplice frase: “Mrozek la rivoluzione l’ha fatta con un lapis nei bagni pubblici“. So che già quasi tutti voi state aggrottando le ciglia chiedendovi quale misterioso significato si celi dietro a una frase sibillina come questa che nemmeno il codice da Vinci…ricordate però che la cultura è una chiave che apre molte porte: sempre.
Allora tanto per cominciare dovete sapere che Slawomir Mrozek (questa la grafia corretta: Sławomir Mrożek) era un drammaturgo polacco, autore di Tango, che ha vissuto anche in Italia. La sua penna è nota per essere acuta e tagliente, la sua ironia è un’arma sopraffina che, se volete potrete riscoprire, non tanto facilmente. E pensare che in Italia fu pubblicato da Einaudi e magari la famosa casa editrice torinese dell struzzo potrebbe riproporcelo prima o poi (nel suo paese l’hanno pubblicato da poco integralmente, vedi foto) lasciando per un attimo da parte l’aspetto commerciale per tornare alla grandeur culturale che fu, ma forse ci eravamo abituati davvero troppo bene…
“Ai tempi della Polonia socialista c’era un eroe, un padre di famiglia che rischiava del suo, compiendo ogni giorni atti rivoluzionari, complottando contro il regime. Il breve racconto, geniale nella sua brevità a dir poco, ci mostra il ritorno a casa dell’eroe, dalla moglie spaventata che ogni sera ne aspetta il ritorno o il non ritorno a casa. -L’avrà fatto anche oggi- si domanda? -Si l’ho fatto- sembra rispondere tacitamente l’eroe alla conserte, facendo capire che c’è un bene più grande da onorare, mentre posa la matita sul comodino e pensa alla frase rivoluzionaria che scriverà domani nei bagni pubblici…”
E forse, proprio per questo motivo, ci sono sempre meno vespasiani, per impedire le rivoluzioni…
Bianche Maledizioni
Queste terre sono piene di morti, sono terre concimate, nutrite del dolore e del pianto di secoli di un’umanità sconfitta. Sono terre calpestate dai piedi dei miei diretti antenati in uno schifoso passato non molto diverso dal mio futuro attuale.
Quella che segue è una storia qualunque di un relitto colpito e affondato nella battaglia degli eventi sociali, all’ombra delle più redditizie cronache mondane. Questa storia spero che piombi sulle vostre interiora coscienti, sui profili delle vostre identità clandestine come una degenerata nebulosa inquinata dai suoi vizi astratti e nei difetti diretti e fin troppo ereditari. Ben troppo presto però si rivelerà a voi nel suo non essere, non essendo, non so dirvi bene cosa non sia e non sta a me dirvelo, confessione a parte di quel che è.
La mia storia è la peculiare storia di un’univoca impossibilità esplicativa di fronte al vostro mondo. Di quella stessa impossibilità intrinseca che esplode diventando arroganza nella chiara e arretrata mentalità metafisica europea.
Sapete che non lo avete mai saputo e ve ne fregate sapendo che il successo si ottiene in altri modi e quando leggete, sempre ammesso che voi ne siate ancora in grado visto che siamo una specie a parte relegata negli angoli delle pagine, pensate ad altre menti, seguite stereotipati modelli a clichè mediatico d’informazione da terza classe.
Ho appreso che è impossibile spiegarvi la particolarità di una terra che la neve lega al cielo rendendola schiava, vittima del suo volere candido quanto dispotico. Per voi è un estremo fastidio se nevica o è solamente l’occasione per indossare quel paio di anfibi o di stivali griffati e contro firmati che avete pagato una cifra immensa e, che per forza, ora di fronte al cospetto di una coscienza consumistica a rate, ne giustificare l’acquisto.
La neve bombarda le città rendendo il paesaggio un’unica spianata dove lo spazio tra cielo e terra è unito nel cadere giù. Ero lasciato per colpa vostra sempre in sospeso e per vendetta o per ripicca ero solito lasciare sempre in sospeso tutto a guardare in giù tra tanto bianco.
Il Monferrato è quel tipo di territorio che rigetta al mondo persone come me e poi le tiene strette a sé, prigioniere tra colline a forma di capezzoli descritti nelle pagine di Pavese. Ma oggi nevica, neve del cazzo, anche se da queste parti ogni tanto vista la vicinanza e la conseguente sfera di influenza si dice belin, e penso a tutto ciò sotto la neve che diventa un macilento fango bianco legante la terra al cielo in una serie eterea di ricordi evanescenti. Fitta neve degli eterni inverni di qui, nelle terre effimere di racconti precedentemente già ascoltati.
La neve…la guardo scendere giù e sento un desiderio nascere in questo mio me. Avrei voluto chiedere a ogni fiocco se anche lui o lei…calando giù nel valzer androgino dei fiocchi di neve….ma cosa cazzo volete che se ne importi a un fiocco di neve, o a chi l’ha creato, di tutte le divisioni superficiali che ci scambiamo qui tra noi nell’inferno celeste che è il nostro piano esistenziale.
Altro che Swedenborg e se non avete capito, prendete un diavolo di libro in mano ogni tanto oppure fermatevi ad aspettare davanti alla tv sperando che sua emittenza Gerry Scotti faccia qualche domanda al riguardo nella sua gara a tappe dei peccati capitali. Da piccolo avevo pure avuto una mezza idea di continuare la mia carriera di scrittore ma avevo realizzato fin da subito la differenza tra letteratura e libricesso, termine che potete pure leggere tuttattaccato creando un neologismo neo realista.
No, non era invidia, non è sinonimo di invidia, al massimo di sconforto quello sì, di quello sconforto che assale tutti le persone disarmate di fronte alla vastità del mondo e di fronte a quell’egoismo disarmante dell’uomo, a suo dire civilizzato, dai grandi saperi dell’occidente economico: fottere tutto e tutti sempre.