Julian Tuwim, polacco, ebreo: poeta

“Al cimitero di  Łódź
Il cimitero ebraico, si erge
La tomba polacca di mia madre
La tomba di mia madre ebrea.”
Matka (Madre)

 

Al suo ritorno in Polonia, Tuwim fece trasferire il corpo sepolto di sua madre da fuori Varsavia nel cimitero ebraico della sua città natale, Łódź.  La strofa iniziale del suo poema “Matka” (Madre) sancisce l’inseparabilità di Identità ebraiche e polacche. Attualmente, in Polonia la sua proclamata ibridità e la sua ostilità nei confronti dell’etnazionalismo autoritario viene omessa, se non addirittura dimenticata mentre  nel mondo ebraico l’eredità di Tuwim è praticamente inesistente. Sembra che il suo innato amore per la lucidità possa essere davvero troppo scoraggiante per tutti.  Julian Tuwim nacque a Łódź, 13 settembre 1894, città descritta da Wajda in un suo film al pari di una terra promessa polacca, è nota da tempo, nella narrativa nazionale, come centro urbano cosmopolita, tanto da arrivare a meritarsi l’appellativo storico di “città delle quattro culture”:  polacca, ebraica, russa e tedesca. La poesia di Tuwim è stata un appello alla diversità, al pluralismo e al multiculturalismo.

La mia patria è la lingua polacca

Componendo in lingua polacca, Tuwim fu il poeta contemporaneo più letto nel periodo tra le due guerre del paese (1920-1930). Ancora oggi in Polonia sono molto apprezzati i suoi versi dedicati ai bambini (in particolare “Lokomotywa ” [Il treno]) e la sua padronanza poetica della lingua è riuscita col passare del tempo a conquistare il cuore delle successive generazioni di polacchi tanto che nel 2013 fu battezzato dal parlamento come l’ anno di Julian Tuwim.  Attualmente la sua statua troneggia sulla strada principale di  Łódź . Sono invece decisamente meno ricordate in Polonia le sue riflessioni poetiche sull’ etno-nazionalismo, sull’ autoritarismo, sull’ antisemitismo e sull’olocausto. Eppure in vita, Tuwim si è espresso diverso volte sulle possibilità e sulle difficoltà delle relazioni polacco-ebraiche durante il XX secolo. Precursore di tempi, lui stesso desiderava essere un vero ebreo polacco e voleva esser rispettato e accettato per entrambe le identità.

“La mia patria è la lingua polacca“, scrisse, cresciuto in una casa ebraica di lingua polacca, Tuwim è stato uno dei primi luminari letterari ebrei polacchi a scrivere in polacco per un vasto pubblico nazionale; come lo scrittore Bruno Schulz, Henryk Goldschmidt, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Janusz Korczak, lo scrittore Alexander Wat e il poeta Antoni Slonimski. La grande popolarità di Tuwim suscitò denunce da parte di critici etno-nazionalisti polacchi che lo accusarono di essere “culturalmente alieno in Polonia “, queste parole furono definito da Maurycy Szymel, anch’egli poeta ebreo-polacco,  “un pogrom contro il diritto di Tuwim alla letteratura polacca “.

 

“Sono Polacco perché così mi fu detto nella mia casa paterna, perché fin dalla più tenera età sono stato nutrito con la lingua di quel paese, perché mia madre mi ha insegnato poesie e canzoni polacche, perché la poesia che mi ha folgorato per la prima volta è stata quella polacca, perché ciò che nella mia vita ha avuto più importanza, la creazione poetica, per me resta impensabile in qualsiasi altra lingua, perfino in quella che io posso parlare alla perfezione.
Sono Polacco perché in polacco ho confidato i turbamenti del mio primo amore, perché in polacco ne ho balbettato le gioie e le bufere“.

Scrivendo in un’epoca e in un luogo dalle identità fortemente monolitiche, Tuwim volle riappropriarsi delle identità ebraiche e polacche.  Nel 1924 il poeta dichiarò in un’intervista: “Per gli antisemiti sono ebreo e la mia poesia è ebrea. Per i nazionalisti ebrei, sono un traditore e un rinnegato ”Tuwim voleva una Polonia più inclusiva da una parte e una maggiore integrazione ebraica in Polonia dall’altra. I suoi punti di vista e le sue posizioni erano apparentemente incompatibili –  si presentava come campione della cultura polacca ma allo stesso tempo era molto critico con l’etnazionalismo polacco;  prendeva distanza dalla cultura ebraica ma era un nemico letterario dell’antisemitismo; fermamente anti-autoritario.
Senza ombra di dubbio il principale contributo di Tuwim alla letteratura polacca è stato anche il suo principale elemento distintivo cioè l’ uso inventivo ed espressivo della lingua. Czesław Miłosz,  vincitore del Premio Nobel per la letteratura,  lo descrisse come un “virtuoso del lirismo” mentre Il critico letterario Roman Zrebowicz si è soffermato sulla padronanza linguistica del poeta ebreo polacco di Łódź , qualità che ha reso le sue opere davvero uniche: “Tutta la poesia di Tuwim ha un odore estatico come una foresta. Ogni verso ha il suo aroma particolare. ”

Tuwim ha però pagato un prezzo elevato per il suo attaccamento alla Polonia. Gli attacchi alla sua scrittura si intensificarono negli anni ’30.  Dopo l’invasione della Polonia nel 1939, Tuwim si rifugiò a ovest a Parigi, e poi in Brasile, prima di trascorrere la maggior parte degli anni di guerra a New York. Nel 1940 durante il suo esilio in Brasile scrisse un lungo riflessione poetica intitolata “Fiori polacchi” pervasa da una lunga malinconia per la distanza dalla patria denunciando  l’antisemitismo prevalente nella Polonia della Seconda Guerra Mondiale. Julian Tuwim era un alieno incapace o non disposto a staccarsi dalla sua identità ebraica. L’esilio e la diaspora, a suo dire, avevano reso gli ebrei un popolo perduto perduto. Il suo poema del 1918 “Ebrei”, scritto all’età di 24 anni, descrive gli ebrei come “persone che non sanno cosa sia una patria / Perché hanno vissuto ovunque … / I secoli hanno inciso sui loro volti / Le linee dolorose della sofferenza”. Come molti dei suoi contemporanei ebrei letterari e intellettuali in Polonia e in tutta Europa, Tuwim credeva che il futuro ebraico dipendesse dalla pari cittadinanza nel loro paese di nascita.

Nel secondo anniversario dell’insurrezione del Ghetto di Varsavia, Tuwim pubblicò angoscianti versi dell’Olocausto. Il suo attaccamento all’ebraismo fu una solidarietà di sofferenza. La persecuzione e il genocidio ebraico intensificarono i legami di Tuwim con l’ebraismo che si dichiarò ebreo a causa del “sangue di milioni di innocenti assassinati … Mai dall’alba dell’umanità c’è stata una tale piena di sangue martire”.

Nel 1946, insieme alla moglie, tornò a vivere definitivamente in Polonia perché credeva che una Polonia sotto la tutela comunista potesse offrire una migliore protezione per gli ebrei. Nel 1947, i coniugi Tuwim adottarono un’ orfana ebrea di Varsavia.  Fino alla fine, polacco ed ebreo, identità accomunate all’interno di questa grande anima poetica fino al 1953 insieme. La Polonia si è concentrata sulla lingua di Tuwim, trascurando l’anima di un di poeta che voleva “trarre sangue con la parola”.  Un titolo del 1974 di The Forward (טעגלעכער פֿאָרווערטס) descrisse Tuwim come “il più grande poeta ebreo” del secolo. Oggi però Tuwim resta in gran parte dimenticato nel mondo ebraico nonostante sia stato il primo grande poeta ebreo a commentare  l’Olocausto,

 

Ma allora perché ‘Noi, EBREI?’ – Vi risponderò: ‘A CAUSA DEL SANGUE’ – E allora è razzismo?! – No, non è affatto razzismo, anzi esattamente l’opposto.
Il sangue può essere di due tipi: quello che scorre nelle vene e quello che ne sgorga fuori. Il primo è una linfa corporea che in quanto tale dev’essere oggetto di studio da parte dei fisiologi. Chi invece a quel sangue attribuisce degli aspetti particolari, diversi da quelli organici, vi scorge dei poteri misteriosi -come vediamo bene oggi- condanna inevitabilmente le città alla distruzione, al massacro milioni di persone […] Il secondo tipo è proprio quello che quel capobanda del fascismo internazionale stilla all’umanità per provare la superiorità del suo sangue sul mio. È ill sangue di milioni di innocenti massacrati […] il sangue degli Ebrei (e non “il sangue ebraico”) scorre oggi in alvei più ampi e profondi“.

 

Gustaw Herling- il Pellegrino della libertà

Gustaw Herling Grudzinski è stato uno scrittore polacco di adozione napoletana. La sua vita, così come la sua prosa, ha sempre sposato l’idea della libertà, non deve perciò sorprenderci il titolo di questa raccolta di testa, perché sì, possiamo dirlo, leggendo nemmeno troppo tra le righe,che il suo percorso in terra è stato un pellegrinaggio, un atto di fede, verso questa idea che per troppo tempo gli è stata negata, vedi la prigionia in URSS.

Parole precise, anche se mai troppo misurate, mirate al bersaglio, come solo un combattente sa fare. Lui che per la libertà ha combattuto davvero, onorando il motto risorgimentale dei polacchi in Italia “Per la nostra e la vostra libertà”.

Herling Grudzinski è uno scrittore che ha provato sulla sua pelle una delle prigionie più dure e crudeli,  quella alla Sovietica che è stata espressa nella barbaria dei gulag, per i prigionieri politici.Tutto nella sua scrittura e nella sua vita è andato inevitabilmente a legarsi con lo spirito della libertà. Anche la sua opera maggiore, cioè la più conosciuta, cioè “Inny Swiat” ( in Italia tradotto e pubblicato da Feltrinelli con il titolo di “Un Mondo a Parte”), dove raccontava la sua incredibile, nel senso di terribile, odissea in cattività, all’interno del grande ventre dispotico di quel che fu l’apparato sovietico, è un resoconto certosino e trasparente su quel che può essere quando viene negata la libertà agli uomini. Herling Grudzinsli, qui in questa edizione curata dalla figlia, Marta Herling, incontra l’Herling uomo che ha attraversato l’Europa, raccontandoci la sua storia di libertà errante, prima come soldato del corpo d’armata polacco agli ordini del generale Anders, trionfatori a Monte Cassino, poi come l’intellettuale ospite di Benedetto Croce, fermandosi fisicamente a vivere nella splendida cornice della costa campana ma restando artisticamente e mentalmente sempre in movimento, costantemente in cammino, rimanendo appeso a quel labile filo di equilibrio che l’ha fatto sempre sentire un uomo libero.

Lì dove le nude rocce di Posillipo si inerpicano nell’azzurra criniera di onde marine…immaginate, immaginate la scena, respirate, chiudete gli occhi, riflette e lasciate uscire tutto per leggere e comprendere questo autore, questo uomo.
Gustaw Herling Grudziniki è nato a Kielce nel 1919 ed è scomparso a Napoli nel 2000. Ttitoli consigliati:

Requiem per il campanaro, L’isola e La notte bianca dell’amore -edizioni l’ancora del mediterraneo

A Monteccasino, sull’obelisco innalzato in onore dei soldati polacchim in cima a quota 593 è riportata in quattro lingue (polacco, italiano, francese, inglese) la significativa iscrizione: Per la nostra e la vostra libertà noi soldati polacchi demmo l’anima a Dio, i corpi alla terra d’Italia, alla Polonia i cuori (Za naszą i waszą wolność my żołnierze polscy oddaliśmy Bogu ducha, ciało ziemi włoskiej, a serca Polsce)

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Divorare gli dei. Un’interpretazione della tragedia greca di Jan Kott

Famoso per lo più, per il suo Shakespeare nostro contemporaneo, l’ottimo Jan Kott merita ancora oggi di essere letto e riletto, sopratutto in questa sua raccolta di saggi dedicata all’immortale teatro greco, dove il celebre studioso polacco scompone la mediazione tra sacro e teatrale in una personalissima mediazione maturata dopo anni di studio e di osservazione sull’immediato e sul sociale circondante.

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Dalle pagine dei giornali moderni al coro greco il passo è più breve di quel che si possa pensare perché se è vero che l’uomo è mortale le sue tragedie, anche in senso lato, restano immortali. Vi consiglio così questa originale e suggestiva interpretazione dei capolavori del teatro greco, effettuata da parte di uno dei più grandi intellettuali del Novecento, Kott, che, armato delle conoscenze derivanti all’epoca da sociologia, psicologia, antropologia, storia delle religioni, decide di accompagnare il lettore in questo viaggio sul destino dell’uomo attraverso il tempo.

Gli accostamenti si succedono densi e vertiginosi: Prometeo, Beckett, le Baccanti, Lévi-Strauss, Sofocle, il teatro dell’assurdo in una serie di arbitrarietà apparenti, il cui valore d’uso si dimostra immediato. Dietro il grande canovaccio di regia c’è tutto il vasto sapere di Jan Kott,; c’è Kott polacco che ha alle spalle incubi e tragedie figlie di un contesto storico dominato dall’ingombrante presenza di un potere imperscrutabile, ma c’è soprattutto l’uomo di teatro portato a trasferire sulla scena i suggerimenti della pagina scritta e a lasciarsi guidare dalle sollecitazioni visive che la sua penetrante immaginazione gli suggerisce.

In questo suo preziosissimo studio viene sviluppata un’ analisi intelligente non solo teatrale, infatti Kott esplora più campi delle scienze umane dimostrando di trovarsi a suo agio in tutte, ma anche antropologica del teatro e della società greca, per chiudere poi il circolo di Prometeo ne i Giorni felici di Beckett. Si deve po segnalare un pregio dell’autore, abile sarto capace non solo di tessere ma di reggere caparbiamente i pericolosi fili dell’analogia.

Può essere vero che la società greca, da cui deriviamo, è stata sopraffatta della storia, ma il suo influsso resta ancora enorme, basti pensare ad una marca di detersivo come Ajax (vi siete mai chiesto perché si chiama così? Semplice è nome ereditato dal mito di Aiace).Personalmente ho trovato splendido il capitolo dedicato al semidio Ercole, lontanissimo dalle sue recenti versioni televisive e cinematografiche, scomposto com’è nelle sue due realtà coincidenti e contrastanti umano e divino. Si può credere solo in dei che non si vedono e si può concepire solo quello che è assurdo. Da ripescare o da scoprire questo testo si dimostra essere uno strumento di vita utilissimo per capire e comprender più di quel che è stato, è e sarà scritto nel mondo.

Jan Kott fu un saggista e critico teatrale polacco naturalizzato statunitense. Si oppose culturalmente al regime comunista instaurato nel suo paese già dal 1956. Nel 1961 pubblicò Szice o Szekspire (Shakespeare nostro contemporaneo,) riproponendo il leggendario bardo inglese in chiave contemporanea. Nel 1966 fu costretto a emigrare negli USA, dove insegnò in varie università. In seguito, nel 1970, riprovò con successo un’operazione simile, come abbiamo appena visto con The eating of Gods (Divorare gli Dei, opera che venne tradotta per la prima volta nel nostro paese nel 1977), un’originale e aggiornata interpretazione della tragedia greca.