La fedeltà degli emigranti per ciò che hanno lasciato: Loco Chavez

“L’importante Chavez è che se hai qualcosa da dire devi dirla. Che tu sia poeta, scrittore, autore di fumetti o cineasta. E non conta quanti ti leggono, ma quello che dici”

Loco Chavez potrebbe essere riassunto così, come il manuale perfetto per aspiranti e giovani scrittori. In un mondo dove l’omologazione è imperante, avere una propria voce è qualcosa di importante. E non a caso la citazione precedente viene messa in bocca ad uno dei più grandi scrittori argentini, fittizi. Hai le tue cose da dire, dille! Questo dovrebbe essere insegnato a tutti noi e non “dillo come lo dicono gli altri che è rassicurante” perché il teatro, l’arte, la cultura, la letteratura, tutto deve essere messo da parte in favore dell’entertainment. Anche Batman, ci avete fatto caso, viene ormai riprodotto in ogni sua forma e deviazione, accettato dai più, anche associato all’amore e pensare il cavaliere oscuro fece il esordio ammazzando un monaco, non proprio così, ma insomma, ci siamo capiti.

Mi sembra doveroso precisare che se state cercate dati esatti o precisi sulla serie a fumetti di Loco Chavez, andate pure su Wikipedia, perché qui si parlerà solo del mio rapporto con questa geniale striscia argentina che, purtroppo, ho finito di leggere ieri.

La leggevo da piccolo, sui periodici dell’Eura editoriale, Skorpio e Lanciostory, ora non ricordo dove venisse pubblicato, e per troppo tempo mi era rimasto dentro questo personaggio atipico per la mia giovinezza alimentata da altre avventure seriale, Disney, Bonelli e Supereroistiche, dove la qualità aveva degli alti e bassi mostruosi.

Loco è un giornalista di Buenos Aires, squattrinato, simpatico, dal cuore d’oro, sfortunato con le donne, le sue sono tutte bellissime ma tutte sempre pronte a lasciarlo per qualcosa di più stabile. Ricordavo anche la sua passione per il calcio, mica il Boca o il River, Loco è un gran tifoso del Racing Club de Avellenada.

Così dopo anni l’ho ritrovato su ebay, io ho preferito il volume unico, quello corposo dei 115 episodi tutti raccolti, ma si trova anche raccolto in volumi brossurati ben più sottili.  Sarcastico, ironico, ambientato in un’ Argentina anni 80 colpita dalla recessione, possiamo tranquillamente definirlo un classico, sottovalutato, perché troppo vero per essere bello e troppo bello per essere compreso. In Loco Chavez si trova tutto, ma proprio tutto l’universo umano, dall’amore alla critica sociale, dalla battuta arguta a quella grossolana. Il cast dei comprimari è solido e ben strutturato. Si comincia da Malone, il migliore amico di Loco, pubblicitario con la passione per Lancan e la semiotica di Umberto Eco, in perenne psicanalisi, non riesce a stare con una donna per più di un giorno, Balderi, il direttore del giornale colpito dalla crisi di mezz’età, Homero, il pensionato che recita le poesie dei cantori del Barrio e propone la sua visione d’antan sulla vita.

Le donne meriterebbero un capitolo a parte, da Pampita a Oblio. che bel nome per una protagonista Oblio, ci avete mai pensato? Riassume tutto. Pampita è una fotoreporter mentre Oblio è una donna sposata, imprigionata in una gabbia d’oro che tenta di scappare, ma nemmeno più di tanto, con Loco.  Sullo sfondo di queste amicizie e di questi amori scorrono e si intrecciano i crimini delle multinazionali, degli speculatori edilizi, dei truffatori di quartieri e della classe politica in decadenza…insomma dagli anni 80 del secolo scorso ad oggi sembra che non molto sia cambiato.

Qualitativamente Loco è a metà strada tra la prosa immaginifica di Borges e l’eden stilistico di Corto Maltese, resta lì sospeso nel vuoto della sua precaria condizione umana. Sfruttato, mal pagato, al centro di pressioni di ogni tipo, si barcamena cercando di fare sempre del suo meglio, di offrire sempre la sua visione migliore, senza mai rinunciare al suo aspetto migliore, la bontà.

La serie si conclude dopo un lungo arco narrativo con la scelta del protagonista di accettare un lavoro all’estero. Pampita, il suo grande amore, partirà con lui. Homero si congeda così: “La memoria corre contro il tempo. È una gara permanente. Un giorno, in un’ altra terra capirai che i suoni, gli odori, le voci che hanno accompagnato tutta la tua vita non ci sono più, o sono diversi…solo il ricordo li riscatta. Allora farai uno sforzo di concentrazione per ricordare qualcosa… Il colore di un muro, un sapore, il nome di qualcuno…e ti renderai conto che…sono cose finite. Che il tempo ha battuto la memoria e le hai perdute… Allora ti ricorderai dei tuoi amici. Loro saranno sempre indimenticabili e conserveranno per te ciò che cerchi…cerchi…cerchi…e non puoi ricordare…è così” mentre queste le parole del protagonista al momento dell’addio: “Questa strada, il bar, le librerie, cominciano a essere diversi perché ciò che vediamo ora sarà il nostro ricordo di loro e così ci saranno cose che esisteranno solo per noi, perché voi a volte le vedrete scomparire… Lontano, faremo sforzi perché restino nella nostra memoria luoghi amati e sono certo che gli saremo più fedeli di voi. Una fedeltà testarda e sentimentale… La fedeltà degli emigranti per ciò che hanno lasciato”.

Le ultime tavole, di impianto hopperiano, vede gli amici rimasti al solito bar a ricordare Loco e, soprattutto, a ricordare che Loco non ritorna, ma arriva sempre.

Personalmente l’ho consigliato anche a Valerio Gaglione che se ne è avvantaggiato in parte per la sua graphic novel su Tenco, non sto a dirvi come e penso proprio che il prossimo protagonista del romanzo che sto scrivendo, da anonimo qual è, passerà a chiamarsi Loco Chavez.

Il titolo del post riprende il discorso finale di Loco, ma, a mio modesto parere è forte, evocativo, c’è tutta la malinconia argentina ma non solo, ci si ritrova anche il Teatro di Mrozek, di Emigranci o del nostro Eduardo… serve aggiungere altro?

carlostrilloaltuna

Transatlantico di Gombrowicz: l’Argentina come punto di vista privilegiato sulla cultura stantia del mondo

“Non intendo invitare alcuno ai mie gnocchi stantii”, così scrive Gombrowicz già a pagina uno del suo romanzo, ma più che un invito è una dichiarazione di intenti, come andremo a vedere, o una chiava di lettura offerta fin da subito al lettore più distratto. Un punto di vista particolare, la lontananza, l’unica ubicazione che offre la migliore possibilità di vedere meglio i dettagli.
Cominciamo dunque con un paradosso, termine non nuovo nella prosa di quel maestro della penna che fu Witold Gombrowicz, scrittore polacco che visse parte della sua esistenza da esiliato, in Argentina, nella città di Buenos Aires. Da fuggiasco, da esule, da persona non grata, Gombrowicz riuscirà a ribaltare tutto, almeno nelle sue vive pagine letterarie, facendo della sua condizione svantaggiata un punto di vista privilegiato sul mondo.
Lo scrittore affermatosi con Ferdydurke troverà il modo di raccontare, di criticare quel suo Vecchio Continente, abbandonato a malincuore, destinato a scontrarsi con le forze del nuovo mondo. Ai più attenti conoscitori della letteratura sudamericana, e di quella argentina in particolare, non sfuggirà il grottesco episodio, camuffato in ambito letterario, presente nelle pagine di Transatlantico, dove lo stesso Gombrowicz, o il suo alter ego letterario di turno, si incontra e dialoga con Eduardo Mallea.
La valigia di Witold Gombrowicz
Questo incontro verbale si può riassumere con un tutto è già stato detto, ogni teoria, ogni avanguardia, ogni scrittore, tutto è già stato. Nel dialogo tra lo scrittore sudamericano e quello europeo non potrà risulterà che tutto è già stato detto e scritto. Gombrowicz, dal suo punto di vista sudamericano, nel 1939, si diverte quindi a spogliare in poche pagine la presunta originalità europea dell’epoca, mescolando idiomi e anime, per finire a parlare da clandestino della tradizione argentina.
Ma qual è la tradizione Argentina? Come si può diventare universali partendo da una periferia del mondo, sia questa la Polonia stessa di Varsavia o l’Argentina di Buones Aires, capitali paradossali? Non esiste una risposta unica anche se tutto è già stato detto. La letteratura, come amo spesso ricordare non è una scienza esatta e per questo arriva direttamente all’anima delle persone, ma la soluzione, o per meglio dire lo spunto, la riflessione, che il moschettiere della letteratura polacca (gli altri due, da ricordare doverosamente, sono Schulz e Witkiewicz) ci propone è quella figlia dell’appartenenza a una cultura considerata di serie B, conflitto che il continente sudamericano vive da sempre nei confronti dei cugini del Nord.
Un’edizione del libro
A questo proposito pare d’obbligo estrarre dalle pagine di questo romanzo una delle citazioni più famose dell’autore, cioè quel: Il Consiglio del Vicino è sempre Male Intenzionato. (da Trans-Atlantico, traduzione di R. Landau, Feltrinelli, 2005²). Dunque una delle possibilità per colmare il gap con il resto del mondo non può che essere l’irriverenza, tema che lo scrittore polacco tornerà a sviluppare e ad approfondire nella sua opera più famosa, Ferdydurke. Una tradizione irriverente non può quindi che essere ricca di aggregazione, di miscugli d’anime, di grovigli e di trame vittime del destino, una definizione, già vista per l’appunto del continente sud americano, di quel luogo di partenza per le avventure picaresche di un conte apocrifo e della sua banda, imbarcatasi in Argentina alla volta della Polonia.
Fabio Izzo
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