Putinas – Al Dio Sconosciuto

Stavo leggendo ” Forms of hope” di Tomas Venclova, edizione  the sheep meadow press, e sono incappato in una frase, un verso di Putinas, poeta lituano, una nazione deve maturare non solo nella libertà ma anche nella schiavitù.

Un verso che ben dipinge la problematica storia lituana a lui contemporanea. Di Putinas
(pseudonimo letterario che significa viburno) e purtroppo non esiste nessuna traduzione nella nostra lingua.

Al Dio sconosciuto

Ti canto un inno, Dio sconosciuto,
anche se, per me, sta svanendo il lugubre mistero di secoli;
Tu –  incrocio sull’orbita terrestre errante
Dove  di tanto in tanto torna il mio tormentato pensiero.

Per alcuni sei una rivelazione tempestosa,
Per altri sei voce che rompe l’imperante silenzio di mezzanotte.
Per me -sei questa terra, le rovine di un santuario,
Dove la vita brulicante della natura non rivela nulla.

Io, un granello di polvere di lande desolate consumate dal sole.
So che lo sei; non chi o come sei –
Il mio cuore, prima del pensiero dell’eternità
che cerco nelle galassie, tace.

Può essere che solo nella tomba scavata della terra,
Se un giorno tra la rugiada e un fiore soleggiato mi alzo
Che qui, tra i fiori profumati della terra,
Vedrò il mio Dio sconosciuto.

Breve storia del museo polacco di Rapperswill

Per 150 anni il Museo polacco di Rapperswil, in Svizzera, è stata una tappa immancabile per i polacchi all’estero e una fonte inaspettata di cimeli e opere d’arte polacche. 

Il Museo è stato fondato nel 1870 dal conte Władysław Broël-Plater, nel castello del XIII secolo.  Durante la seconda guerra mondiale, il museo ha assunto la tutela culturale di 13.000 soldati polacchi internati in Svizzera, dopo aver combattuto in Francia. Molti di questi ex soldati rimasero in Svizzera dopo la fine della guerra, lavorando come ingegneri, scienziati e artisti.  Nel corso degli anni, il castello ha fornito rifugio a molti intellettuali polacchi come ad esempio lo scrittore Stefan Żeromski che vi soggiornò per 4 anni.

Nonostante il valore attribuito dalla Polonia, le autorità locali di Rapperswil hanno deciso di commercializzare l’edificio del XIII secolo,  progettando di modernizzarlo e di privatizzarlo. Nei nuovi progetti sembra quindi non esserci più posto per il Museo Polacco che, molto probabilmente, sarà sostituito da un ristorante. Da anni il museo organizza concerti e mostre temporanee che hanno coinvolto anche artisti svizzeri. Gli abitanti di Rapperswil possono accedervi gratuitamente e, se non fosse per le mostre e per l’associazione polacche che lo sostengono, il castello sarebbe completamente chiuso ai visitatori.

La collezione del museo è ricca di curiosità e cimeli, nella sua collezione si trovano dipinti di Józef Brandt, di Józef Chełmoński, di Teodor Axentowicz e di Jacek Malczewski, oltre che una collezione inestimabile di 102 miniature di Wincenty Lesseur risalenti alla fine del XVIII secolo, dono della famiglia Tarnowski. La pinacoteca del museo ospita anche una collezione di dipinti di Hanna Weynerowska – Kali, un’artista di San Francisco non molto conosciuta in Polonia. Tra i cimeli storici del museo polacco di Rapperswill sono da segnalare il medaglione contenente alcuni dei capelli di Tadeusz Kościuszko, il suo orologio, la poltrona di Henryk Sienkiewicz e la tastiera silenziosa usata da Jan Ignacy Paderewski per esercitarsi a suonare.

La biblioteca del museo, oltre a libri e giornali clandestini del periodo comunista, conserva riviste di emigranti e di letteratura polacca in lingue straniere, raccolte di grafica e stampe antiche, tra cui l’edizione originale dell’opera di Copernico.

 


False credenze storiche: la II GM non è finita in maniera lineare

Sono tante le false credenze dettate dall’errata percezione della storia, frutto dell’ignoranza, così, l’11 % della popolazione americana crede che siano stati gli ebrei a causare l’olocausto, ma questa è un’altra storia, oggi mi voglio occupare di altro.

In molti tendono a pensare che la Seconda Guerra Mondiale sia finita all’improvviso, in modo netto, pulito e ordinato, con una festa rumorosa a Times Square o sotto la torre Eiffel, senza altre conseguenze se non quella  della guerra fredda, purtroppo la verità è molto molto più complessa e le ferite, profonde e insanabile, si sentono ancora.

Migliaia di profughi speravano di tornare a casa, sfollati, disertori, criminali di guerra. Tra loro si trovano lituani e ucraini, tutti accomunati da un triste destino, a  lavorare in Germania perché impossibilitati o troppo impauriti dalla prospettiva di andare a vivere lì,  nei paesi finiti sotto il dominio sovietico; ma anche i tedeschi di etnia polacca e cecoslovacca furono deportati dopo la sconfitta nazista; senza dimenticare 250.000 ebrei sopravvissuti all’Olocausto.

La loro era una marcia di disperati comparsa nelle zone britanniche e americane della Germania occupata, disperati che venivano collocati in campi temporanei.

L’Unione Sovietica vittoriosa chiese che i rifugiati dalla Polonia, dall’Ucraina e dagli Stati baltici fossero rimandati a “casa” per aiutare nella ricostruzione, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti si opposero al rimpatrio forzato.  Bisogna dire però che gli Stati Uniti non furono molto più accoglienti. Le rigorose quote di immigrazione tenevano al minimo l’ammissione ai rifugiati e gli sforzi del Congresso per rimediare a ciò si sono rapidamente impantanati nella politica della Guerra Fredda tanto che un membro del Congresso del Texas: si spinse a pronunciare “Questi campi sono letteralmente pieni di barboni, criminali, sovversivi, rivoluzionari, pazzi e rottami umani”.

Il disegno di legge approvato dal Congresso venne scritto per escludere la maggior parte degli ebrei, intenzionalmente o meno, e privilegiare i rifugiati delle repubbliche sovietiche e di stati  come Polonia e Ucraina, attendibilmente anticomunisti. Il fatto che alcuni di loro avessero volontariamente collaborato con i nazisti e fossero colpevoli di crimini di guerra facilmente verificabili era un fatto che non preoccupava troppo i funzionari statunitensi. La Germania, dopotutto, è stata sconfitta. Era ora di combattere la Guerra Fredda.

 

L’eco del rifiuto di Mascha Kaléko

Tra i tanti Doodle pubblicati da Google colpisce sicuramente quello dedicato ad una poetessa, una donna coraggiosa, Mascha Kaléko che rifiutò un importante premio letterario perché nella giuria era presente un ex nazista. Lei, ebrea polacca, costretta a lasciare prima la sua città natale e poi la sua nuova patria adottiva per le tragedie legate alle due guerre mondiali, conosceva molto bene il peso delle parole e delle scelte di vita.

Mascha nacque nel 1907 come Golda Malka Aufen a Schidlow, Chrzanów, comune della Piccola Polonia. Dopo la prima guerra mondiale la sua famiglia fu costretta a fuggire e si stabilì nella vicina Germania. Qui la piccola Mascha inizia a scrivere poesie durante l’adolescenza ma la pubblicazione delle sue opere avviene solo dopo il suo matrimonio con Saul Aaron Kaléko, nel 1928. A Berlino diventa una presenza fissa nella società dei caffè alla moda cittadini, pubblicando su giornali come “Vossische Zeitung” e “Berliner Tageblatt”. Negli anni ’30 era ormai una poetessa affermata e frequentava assiduamente il “Romanisches Café“, un caffè letterario legato ai nomi di Erich Kästner e Kurt Tucholsky. Nel 1933 dà alle stampe il suo primo volume di poesie intitolato “Das Lyrische Stenogrammheft”. Mascha si era così saldamente affermata tra le avanguardie letterarie tedesche.Due anni dopo pubblica una seconda raccolta di poesie, “Das kleine Lesebuch für Grosse”.

Dopo il fallimento del suo primo matrimonio la poetessa di origine ebraica si risposa con il compositore Chemjo Vinaver, anch’egli originario della Polonia,. Nel 1938, quando l’ascesa dell’estrema destra in Germania divenne inarrestabile, la coppia prese la decisione di trasferirsi negli Stati Uniti, stabilendosi infine a Manhattan, New York, insieme al figlio piccolo, Steven. Lì, Mascha era ora la principale fonte di sostentamento della famiglia e guadagnava denaro scrivendo testi per la pubblicità.

Mascha pubblica il suo terzo volume di poesie, Verse für Zeitgenossen, nel 1945. Dopo 10 anni dalla fine della seconda guerra mondiale Mascha sente che era giunto il momento di tornare a Berlino. Tre anni dopo le viene assegnato il Premio Theodor Fontane per la sua incredibile opera letteraria, ma lei non lo accetta perché un ex nazista, Hans Egon Holthusen, poeta e studioso letterario che era stato membro del partito nazista e aveva prestato servizio nell’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale, faceva parte della giuria. Mascha è ricordata a Berlino con una targa commemorativa nella sua ex residenza. Anche una strada e un parco le sono stati intitolati in città.

 

Vor meinem eignen Tod ist mir nicht bang,
Nur vor dem Tode derer, die mir nah sind.
Wie soll ich leben, wenn sie nicht mehr da sind?

Allein im Nebel tast ich todentlang
Und laß mich willig in das Dunkel treiben.
Das Gehen schmerzt nicht halb so wie das Bleiben.

Der weiß es wohl, dem gleiches widerfuhr;
– Und die es trugen, mögen mir vergeben.
Bedenkt: den eignen Tod, den stirbt man nur,
Doch mit dem Tod der andern muß man leben.

(aus:  Verse für Zeitgenossen)

Quando il distanziamento sociale salvò il Ghetto di Varsavia dall’epidemia

Nel 1941, un’epidemia di tifo colpì il ghetto di Varsavia, dove vivevano 450.000 persone. L’ambiente freddo e affollato offriva le condizioni ideali per la diffusione delle infezioni.  Così nel gennaio del 1941, gli abitanti del ghetto di Varsavia iniziarono, inevitabilmente, ad ammalarsi. Solo pochi mesi prima, gli occupanti nazisti avevano costretto la popolazione ebraica in un’area sovraffollata di 3,4 chilometri quadrati. 450.000 persone si trovano di fronte all’improvviso scoppio di una malattia infettiva che, se non prontamente curata, può arrivare ad avere un alto  tasso di mortalità. La malattia cominciò a dilagare nel ghetto colpendo 120000 persone, uccidendone 30000 circa. 

 

Si arrivò così al mese di ottobre, quando un altro rigido inverno era alle porte, ma l’epidemia, fortunatamente diminuì fino a scomparire grazie a mirati interventi di salute pubblica, come riporta un recente studio.  Per combattere la diffusione della malattia, suggeriscono gli esperti della rivista Science Advancese, gli ebrei all’interno del ghetto potrebbero aver fatto qualcosa di non troppo diverso da quanto raccomandato oggi nella lotta contro COVID-19. Gli abitanti del ghetto varsaviano si mobilitarono per aiutare a fermare la diffusione del tifo. Terrorizzati dal contatto accidentale, le persone costrette nel ghetto praticarono il distanziamento sociale, prestando attenzione all’igiene personale e a quella delle loro abitazioni, per quanto fosse possibile. Anche l’auto isolamento divenne una pratica regolare. Incontri, conferenze e corsi sull’igiene e sulle malattie infettive diventarono materie per l’università medica clandestina.
Tra i i funzionari della sanità pubblica ebrei che lavoravano all’interno del ghetto c’era l’epidemiologo Ludwik Hirszfeld,  lo studioso che scoprì l’eredità dei gruppi sanguigni. Hirszfeld aveva già contribuito a creare l’Istituto nazionale di igiene nello stato polacco esistente tra le due guerre mondiali e svolse un ruolo importante nella creazione di iniziative di salute pubblica all’interno del ghetto. Nel suo libro di memorie  scrisse: “il tifo è il compagno inseparabile della guerra e della carestia … Questa malattia distrugge più persone del” più brillante “comandante. Spesso decide l’esito delle guerre “.

Per combattere la malattia mortale, anche con scarse risorse, Hirszfeld e altri medici ebrei tennero centinaia di conferenze pubbliche, offrirono corsi sanitari e di igiene e istituirono quindi un’università medica sotterranea per formare giovani studenti di medicina sugli effetti concomitanti della fame e delle epidemie .  L’epidemia aiutò i soccorritori a tenere a bada la Gestapo, ad esempio, quando i lavoratori muniti di test positivi al tifo si presentavano in una fabbrica o in un cantiere di lavoro forzato, i tedeschi li  mandavano in quarantena. Il caso del ghetto di Varsavia non è sicuramente il primo o l’unico esempio dell’interazione tra politica e malattia, ma questo studio fornisce prove illuminanti a favore dell’efficacia delle campagne di salute pubblica e della necessità di nuovi modi per valutare i fattori di rischio, in particolare alla luce della pandemia di coronavirus in corso. Indubbiamente ci sono lezioni inestimabili da imparare dal passato.