Quel che resta, ingiustamente, ancora inedito di Marek Hłasko: Drugie zabicie psa

“Il mio vero padre era un uomo buono e gentile che morì quando avevo sei anni. Ma un padre del genere è assolutamente inutile, disse Robert [il regista teatrale]. “Dimenticalo. Tuo padre deve essere uscito fuori dalle pagine di Dickens. Forse era anche un fanatico religioso che ha portato tua madre verso una tomba prima del tempo. Lasciami i tuoi genitori”. p.58

Illustrazione di Valerio Gaglione

 

In un mare di pubblicazioni risulta ancora inedito, purtroppo, “Drugie zabicie psa”, primo capitolo della  trilogia israeliana di Marek Hłasko, un testo che, a mio parere, ha tutti gli ingredienti per diventare un libro di culto. Si tratta di una storia appassionata e frenetica basta su due personaggi, due antieroie perdenti, truffatori atipici, immigarati in Israele.

Uccidere il secondo cane racconta le avventure di un ex-truffatore polacco ed ex-pappone emigrato impegnato in questa vicenda in un affare criminale con un suo socio, un regista teatrale, in una “missione” per truffare una potenziale amante.  Tutti i personaggi di questa vicenda non sono neutrali e hanno già perso l’innocenza da tempo, dimostrandosi incarnazioni letterarie di una crudele natura umana tipica dello scrittore polacco che qui applica una voce narrante soggettiva che sta cercando di fuggire dal suo passato: l’Olocausto  e altre tragedie della Seconda Guerra Mondiale in Polonia. Questa voce narrativa non riesce a dimenticare mai, nemmeno durante un rapporto sessiale, così accanto all’idea centrale dell’oblio estivo, il tema dell’anamnesi contro l’amnesia è un tema portante  del romanzo: che qui funziona in maniera disfunzionale contrapposta com’è alla spavalderia maschile di una terra militarizzata , immersa nel sole durante la stagione turistica ma circondata da stati-nazione fondamentalisti ostili. Su questo problematico sfondo avviene la lenta seduzione del lettore che assiste allo sviluppo della trama.

Jacob  si innamora di Mary, quarantenne divorziata ebreo-americana che si è trasferita in Israele per dimenticare, ma si sente comunque obbligato a rimanere fedele al patto che ha stipulato con Robert, il cinico “regista” sposato solo con il suo mestiere e deciderà di portare a termine la seduzione nella maniera più infelice impossibile.

Hłasko rimase in Israele fino alla fine del 1960 e il lungo soggiorno gli fornì materiale per la sua opera più matura e migliore,  cioè i cosiddetti Racconti Israeliani,  ciclo composto da  tre romanzi e da una mezza dozzina di racconti. Parliamo di un tipo di letteratura che era quasi senza precedenti nella narrativa europea del tempo, di testi animati da una prosa cruda e dura modellata sul genere del poliziesco americano, arricchiti però da dialoghi bizzarri e brillanti e dal crudele tono memorialista di un sopravvissuto esistenzialista che porta con se troppe storie da raccontare,  sommerso dalla sua stessa memoria.

“Sarebbe stato un sollievo dirle tutto … e non avrei avuto bisogno di Robert e delle sue maledette istruzioni per farlo. Sarebbe stato un sollievo dirle della famiglia ebrea che si nascondeva nella porta accanto finché non furono uccisi dai tedeschi. Un uomo, una donna e tre bambini … e sarebbe stato un sollievo dirle che un giorno, mentre andavo a scuola, i tedeschi hanno bloccato la strada e ci hanno costretti ad assistere all’impiccagione di persone dai balconi; nessuno si muoveva o urlava, non quelli costretti a guardare, né quelli che venivano impiccati … ma non ho detto queste cose. Mi sono sdraiato accanto a lei e il calore del suo corpo mi ha avvolto e messo a dormire e non c’era nient’altro che volevo sentire o pensare.”

 

Definito come il James Dean della letteratura polacca Marek Hłasko nacque a a Varsavia nel 1934 e morì Wiesbaden, Germania, 1969. Forse è il più controverso degli scrittore polacchi del dopoguerra.  A sedici anni iniziò a lavorare come camionista. Poi tentò la sorte come muratore, operaio, addetto alla reception e venditore ambulante. Nel 1957 pubblicò “Il primo passo tra le nuvole”, a cui seguì nello stesso anno “L’ottavo giorno della settimana”. Dovette andare in esilio in Occidente e dopo anni di sradicamento, scrittura ed eccessi che lo portarono fin negli Stati Uniti, in compagnia di Roman Polanski, tornò in Europa dove morì a trentacinque anni per un cocktail di sedativi e alcol.

A Chip Shop in Poznan, libro sulla Polonia di Ben Aitken (solo in inglese, per ora)

Una volta, mentre ero in Polonia, per documentarmi su del materiale riguardante uno dei miei libri, in una di quelle frivole conversazioni che si intavolano online, più per noia che per altro, uno scrittore italiano mi disse che quello che stavo facendo era molto ottocentesco.
Sì, esatto, ottocentesco, perché a suo dire ormai online si trova di tutto, le informazioni sono a portata di click e purtroppo, per molti di loro, anche le emozioni si accendono e si spengono premendo sul mouse.

Fortunatamente non è stato di questa opinione l’inglese Ben Aitken, scrittore che ha deciso di scoprire perché nel Regno Unito si sono trasferiti così tanti polacchi e, da bravo spirito libero ottocentesco, ha voluto capire, comprendere e provare sulla propria pelle i motivi di questa scelta effettuata per lo più da giovani che lasciano città come Nowy Targ o Torun per andare a cercare fortuna a Londra.

Non sono molti gli Inglesi, ma non sono, che decidono di andare a lavorare in Polonia per un anno in un negozio di Fish and Chip. Nel 2016 Aitken lo ha fatto e si è trasferito in un posto che non aveva mai sentito nominare prima, Poznan e ha vissuto da immigrato, evitiamo l’uso della parola expact perché è una semplice e ipocrita mistificazione radical chic che serve solo a fare una netta distinzione sul potere economico d’acquisto del migrante che resta tale solo se povero.

Aitken ha così deciso di spendere un anno della sua vita a spelare patate e a scoprire la Polonia, collezionando aneddoti, più o meno divertenti, mischiandosi tra la gente, quella vera, che spesso e volentieri non ha tempo di stare a esprimere opinioni su una tastiera.

Il lettore può così scoprire la realtà di un paese complicato, post comunista, dove il capitalismo rampante e i suoi mali colleganti, sono emersi troppo in fretta, dove le tradizioni sono rispettate e dove, se ti presenti a casa di uno sconosciuto per la cena di Natale, un posto a tavola esce sempre.

Aitken, in occasione del lancio del libro ai media inglesi ha dichiarato: “Il contatto tra le persone è molto importante e non dobbiamo permettere che le nostre opinioni siano modellate da ciò che vediamo nelle notizie, che può essere riduttivo e polarizzante”.

Gregory Corso, il più italiano dei Beat

 

 

Il più italiano dei Beat, il beat più italiano: stiamo parlando del poeta Gregory Nunzio Corso, italo/americano di padre calabrese e di madre abruzzese. In gioventù il nostro Gregory entra ed esce dal riformatorio ma invece di perdersi, finisce con il riscoprirsi, lì infatti scocca il colpo di fulmine tra questo figlio di immigrati italiani e la poesia. L’autore de “La Bomba” ha così ricordato questo suo particolare incontro:
“..leggendo Shelley in un carcere minorile che aveva cominciato a scrivere poesie, a sognare la Bellezza con la B maiuscola, a immaginare mondi stellati non legati ai fili della logica inesplicabili”.

Un passato turbolento e una formazione da autodidatta non potevano che portare Gregory, lì dove nessun poeta si fosse mai spinto, cioè arrivare a fare a pungi con l’autore de “Il Nudo e il Morto” Norman Mailer, proprio in seguito ad una discussione fin troppo animata riguardante la Beat Generation.

La lingua poetica di Corso è colta e ricca di richiami classici, le immagini liriche esplodono fresche nelle sue opere e appaiono psichedeliche quanto infarcite di richiami alla cultura classica, come nel componimento “La Primavera del Botticelli”. Corso descrive in questi suoi versi la cultura italiana, addormentata in tutte le sue illustri figure, accompagnate sullo sfondo da campanili ghiacciati e smarriti in attesa di un arrivo di un segno, come fu per lui la scoperta della poesia nel carcere giovanile, in questo caso fino al momento in cui Botticelli arriva ad aprire la porta del suo studio, l’arte porta alla rinascita:

“Della Primavera nessun segno! Nessun segno!
Ah, Botticelli apre la porta del suo studio”.

Corso nell’arco della sua vita trascorse lunghi periodi in Europa, infatti dal 19957 al 1966 era facile trovarlo a Parigi, nelle stanze del famoso”Beat Hotel” del Quartiere Latino, storico albergo presso cui risiedettero diversi esponenti della cultura Beat come Ginsberg, Peter Orlovsky e William Burroughs. Nel decennio successivo Corso passò poi a frequentare assiduamente il paese dei genitori, l’Italia, vivendo spesso a Roma, città che attualmente ospita nel cimitero acattolico del Testaccio le ceneri del poeta, posizionate a fianco alla tomba di Shelley e non molto lontano da quella di Keats, poeti molto apprezzati dallo stesso Gregory.

Fernanda Pivano ha descritto il suo Corso così: “insolente al di là del sopportabile e strafottente nella più assoluta imprevedibilità qualunque cosa abbia detto o scritto ha sempre rivelato il dono di non dire mai una sciocchezza”.
Una descrizione questa che calza alla perfezione anche per “Ah, Roma!” canzone che il poeta ha inciso su musica di Francis Kuipers per l’etichetta Red Records. Il testo, che trovate di seguito, è un esplosivo idioma, risultato di una mescolanza italo americana apparentemente semplice e ingenuo, strafottente nella pronuncia approssimata, ma se si oltrepassa l’apparenza si scopre che il testo non è mai sciocco, le sue parole scorrono fino a esplodere improvvisamente nel finale. Già, la poesia è una bella donna che permette al suo autore di fare tutto quello che vuole, tutto ciò che altrimenti sarebbe impossibile, di colmare lacune e di poter finalmente salutare Dio.

Ah, Roma!

Ah Roma!

Io molto tragico

Io no omo

No papa

No mama

No dente

No bella donna

No dio

Niente solo io

Ah, Roma!

Io molta felicità

Mie case tutte belle

Io papa

faccio mamma faccio bambini

I can buy dente grande coccodrillo

ancora

I got bella donna

signorina poesia

tutti Io

ciao dio

Corso fu anche protagonista della televisione italiana. Intervenne in una puntata di Blitz, trasmissione di Gianni Minà dove si trovò a colloquiare con Fabrizio De Andrè. Il cantautore genovese in diretta si espresse così a proposito del poeta Beat: “La cosa che mi ha stimolato di più da parte di Gregory Corso è questo suo modo di scrivere per stimolare a sua volta la gente a scrivere. Quindi non è stato una porta chiusa ma una porta aperta. Se tu leggi Dante Alighieri ti si chiude veramente una porta di stagno in faccia. Ha scritto lui, io non scrivo più. Corso ti dà la possibilità di continuare a scrivere, ti fa venire voglia di scrivere.”

Sempre da quella storica puntata apprendiamo che per Corso la poesia è “smart”, in risposta a una domanda di Minà, (sorvoliamo sulla traduzione simultanea dell’epoca che al pubblico italiano offrì una versione abbastanza improbabile mettendo sulla bocca dell’ospite americano un: “La poesia è semplicemente essere un po’ strani”, cosa che fece storcere un po’ il naso a Corso stesso che sembrò capire in diretta la traduzione sbagliata). L’incontro televisivo tra il cantautore genovese e il più giovane esponente della Beat Generation finì con l’omaggio di parte di Faber del disco del 1970 “Storia di un Impiegato” dove sul frontespizio compaiono, per l’appunto, alcuni versi del poeta per lui motivatore tratti da Visione di Rotterdam, scritti per ricordare la distruzione della città olandese effettuata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale: “La pietà si appoggia al suo bombardamento preferito e perdona la bomba” parole che ricordano i versi deandreiani: “Nella pietà che non cede al rancore madre ho imparato l’amore”,

De Andrè in questo suo intervento ha citato in parallelo Corso e Dante come poeti di riferimento, di apertura e di chiusura, Corso è per lui poeta motivante mentre Dante resta inarrivabile. Dante è però il trait d’union perfetto verso un altro omaggio che la cultura italiana, quella con la C maiuscola, ha fatto a questo poeta figliol prodigo. Molto famosa e apprezzata infatti è la lettura della Divina Commedia registrata da Vittorio Gassman, ma il grande mattatore ha omaggiato con la sua recitazione anche Corso. Infatti nello spettacolo teatrale del 1973, Il trasloco, ha letto i versi di Matrimonio, una delle poesie più famose di Gregory,

 

 

 

 

 

 

La malattia dell’anima di Gustaw Herling-Grudziński

Gustaw Herling-Grudziński

20.05.1919—4.07.2000

Gustaw Herling-Grudziński  è stato uno dei più importanti scrittori dell’emigrazione polacca del XX secolo, autore di Un mondo a parte . Nato a Kielce nel 1919, è morto il 4 luglio 2000 in Italia. Nato in una famiglia ebrea, studiò a Kielece,  nella scuola intitolata a Mikołaj Rej. Successivamente studiò per due anni filologia polacca presso l’Università di Varsavia. Nell’ottobre del 1939, insieme ai suoi colleghi, fondò una delle prime organizzazioni di cospirazione: Polska Ludowa Akcja Niepodległosciowa (PLAN). Andò a Leopoli e poi a Grodno. Nel 1940 fu arrestato dal NKVD mentre tentava di andare in Lituania. Condannato a cinque anni in un gulag, fu imprigionato nell’estremo Nord e fu liberato due anni dopo. La sua drammatica esperienza è stata descritta nel libro più famoso di Herling-Grudziński, Un mondo a parte. Lasciò la Russia insieme all’esercito di Anders e combatté nella battaglia di Monte Cassino. Dal 1946 è stato membro del Partito socialista polacco (PPS), che ha abbandonato nel 1960. Nel 1947 ha co-fondato la rivista Kultura, che fu poi pubblicata a Roma. Si trasferì a Londra per alcuni anni e poi, dopo la sua prima moglie, tornò a Napoli, dove sposò Lidia, figlia di Benedetto Croce, e dove rimase fino alla morte. Tra il 1952 e il 1955, ha collaborato con Radio Free Europe. Successivamente ha collaborato con il Comitato per la difesa dei lavoratori (KOR) e con l’accordo di indipendenza polacca (PPN).

La malattia dell’anima

Senza dubbbio, cosciente dei limiti ma anche dei poteri della lingua, Herling qui cerca di evocare quello che designa sotto il nome di “malattia dell’anima”. Questa espressione occupa in effetti il fulcro dell’intervista che lo scrittore ha accordato a Wlodimierz Bolecki a proposito della sua novella “Il soffio caldo del deserto” ( Goracy oddech pustyni). Inoltre l’espressione malattia dell’anima, fa parte di una prospettiva piu ampia e nel corso di questa intervista emergeranno i principali motivi, siano essi meta letterari o esistenziali, dell’opera in generale. Questi motivi possono essere cosi riassunti:

– la sofferenza individuale è vissuta e pò edeve essere presentata come una malattia dell’anima.

– la sofferenza individuale conduce a volte al suicidio e a quella che potremmo chiamare una morte paradossale, ugualmente motivata sia dall’altruismo che da una manovra di autodifesa che ingloba la vittima stessa.

– chiunque voglia rendersi conto di esperienze estreme, testimonianti gli strati piu profondi della persona umana, deve -paradossalmente- passare attraverso delle costruzioni linguistiche che sembrerebbero letterarie, e dunque artificiali. In realtà si tratta di espressioni tendenti ad captare un grado superiore di realtà, una realtà talmente reale da definirsi realissima per così dire.Questo riguarda il nucleo “Entreé dans l’oeuvre de la creation” così come riguarda l’espression “goracy oddech pustyni” che Herling afferma aver direttamente ascoltato dalla bocca del prete Zenone durante la malattia di quest’ultimo.

-le formule dotate di una legittimità che non sia intellettuale ed istituzionale, sono incapaci di rendere conto di certi gesti umani motivati sia dal desiderio viscerale di sfuggire dalla malattia dell’anima (questo è il caso di Derek nella novella), sia al contrario per una capitolazione davanti a quest’ultima (e questo è il caso delle due donne bolognesi).

 

Herling-Grudziński, che ha trascorso quasi tutta la sua vita al di fuori dell’influenza della lingua polacca, utilizzando l’ inglese, il francese e  l’italiano, ha sempre mostrato uno sguardo distante. Ad esempio nel racconto intitolato “Goracy oddech pustyni” viene evidenziato come il pessimismo e il male siano concetti radicati profondamente nel suo pensiero, tanto che, durante un suo viaggio a Capri, rimane cosi colpito dall’atmosfera di solitudine e decadenza che i resti della villa di Tiberio sanno restitituire, da arrivare a scrivere. “qui si era spento un uomo pieno di avversione per il mondo pur essendone il sovrano, consumato poco a poco ( come sostiene uno studioso spagnolo) dalla malattia del “resientimiento”, sprofondato nell’infinita solitudine del suo spirito. Herling resta uno scrittore di frontiera: frontiera tra sogno e realtà (la stessa espressione “goracy oddech pustyni” proviene da questo spazio del sogno, dove si esprimono le profondità della realtà umana), frontiera tra la vita e la morte, tra il suicidio e la speranza ritrovata, frontiera tra l’individuale e il collettivo, frontiera tra la letteratura e la vita stessa, tra la relazione nuda e la relazione mediata dalla letteratura, frontiera tra il dirtto, in senso professionale e tecnico del termine, e la giustizia umana.

Intolre è rimarchevole sottolineare fino a che punto il tema del suicidio impregni l’insieme dell’opera: tutto lascia pensare che sia costantemente presente nello spirito dello scrittore sotto varie forme. Pavese per esempio, di cui Herling diarista ha criticato le posizioni estetiche, ha come non manca di ricordarlo l’autore del “Diario scritto di notte”, messo fine volontariamente ai suoi giorni. ugualmente fu il caso di Virginia Woolf di cui nelle “Entretiens con Wlodzimierz Bolecki”, Herling avvicina un’altra figura di suicida che ha fatto apparire nel Diaro: quella di Ester, giovane ragazza che è entrata nell’acqua tutta vestita e con le braccia tese in avanti.

Herling si mostra sensibile all’impenetrabilità dell’anima. Nel suo diariol userà l’espressione “multidimensionalità” e se ne serivrà come un criterio che gli permette di squalificare la cateogoria specifica di genio rappresentata da uno scrittore del XV secolo italiano Matteo Bandello. Nell’insieme della sua opera, Herling semba quasi voler sovraesporre il tema della complessità, la tenebrosità dell’anima umana, la quale subisce una doppia attrazione/fascinazione mortale dal male e dalla malattia. Citiamo qui come l’autore di “Goracy oddech pustyni” riveli a proposito della malattia di Violet,  giovane inglese caduta in una prostrazione irreversibile: si tratta di un processo a questo punto talmente compleso ed incredibile da suggerire nella novella qualcosa di improbabile in apparenza cioè che questa malattia potrebbe essere contagiosa.

Assolutismo metafisico o manicheismo?

Ma non si deve riconoscere che la complessità dell’animo umano messo in luce dallo scrittore si scontri con la concezione, che si sviluppa parallelamente da quest’ultima come innestata su un fulcro irriducibile e indistruttibile? L’immagine di un tale fulcro non suppone la messa in opera di un paradigma della solidità e dell’unicità compatta? Sembrerebbe così che la dimensione filosofica rivestita dalla scrittura di Herling in vista alla presenza di questo tema della complessità dell’animo umano, incontri un punto di tensione o quantomeno un limite. Herling nel corso della stessa intervista non sembra considerare che possa affrontare il rischio di contraddirsi, egli stesso evoca quest’immagine. Anzi, non soltanto evoca l’immagine del fulcro ma segnala appena la la tensione così creata senza tuttavia trarre tutte le conseguenze delle proposte che egli avanza: “penso qui a Kafka che affermava: c’è qualcosa in me che niente e nessuno puo distruggere”. Ma torniamo alla novella. Vediamo che questa malattia che io descrivo si riduce ad una sorta di sfaldamento di questo “fulcro duro”, il quale si riduce in sabia fine. In niente.”

Chiaramente, questi concetti possono essere tacciati come contraddizione! O meglio il “nodo” segnalato da Herling è, ontologicamente, indistruttibile, ma – puo essere ridotto in polvere da una malattia, bisogna quindi riconoscere che il suo carattere di ” nodo indistruttibile” è molto relativo. Per dirlo in altro modo, se una malattia, per quanto terribile, è in grado di annientare il fulcro che risiede nel profondo dell’uomo, questo significa che tale nodo non è affatto indistruttibile e che di conseguenza non c’è un fulcro che sostenga l’uomo attraverso la sua esistenza qualunque fossero le prove che debba sopportare.

In un’ intervista  Herring riconosce di aver lui stesso augurato la morte della sua vicina a causa dello spettacolo desolante suscitato dal decorso della sua malattia. Tuttavia, come sappiamo Herling non manca di segnalare come tutto porti a credere che lo scrittore si sia fatto difensore di una stretta linea di demarcazione tra il bene e il male che Krzysztof Pomian ha definito: ” un manicheismo a uso dei nostri tempi”.

“Sono arrivato alla convinzione che un uomo possa essere umano qualora viva in condizioni umane e che non c’è più grande assurdità di giudicarlo sulla base di azioni commesse in situazioni inumane, come se l’acqua potesse essere misurata dal fuoco e la terra dall’inferno”.

Bisogna fare bene attenzione ai termin usati qui dallo scrittore, il suo approccio non è relativista ma come abbiamo detto dualista. Torniamo quindi al problema di cui ci stiamo occupando, la comprenzione del parallelismo contraddittorio ed esclusivo tra un nodo indistruttibile ed un “nodo disruttibile”. Se si ammette la tesi manicheista dell’esistenza delle due sfere ermeticamente separate tra il bene e il male, la contraddizione appare chiara, definita : sembra allora che il fulcro indistruttibile crolli ( per riprendere l’espressione usata dallo stesso Herling) a partire dal momento in cui l’uomo è proiettato nella sfera dove regna il male, che significa inversamente che il bene è la la condizione possibile dell’esistenza e della permanenza del “fulcro indistruttibile” nell’uomo.

Il male non consite solamente in un’antitesi del bene, ma appartiene al bene, diventa quindi accettabile dire che il male è il bene.

19 minuti per postare

La batteria del pc durerà ancora 19 minuti.
Ho 19 minuti per scrivere un post.

Sensato, decente.
Non ce la farò mai.
L’ansia da pagina bianca mi assale.
I colori, i rumori, tutto mi distrae.
Passerò 19 minuti a pensare che è già una bella fetta di tempo rispetto al cittadino medio.
18 minuti se voglio postare perché ci vuole del tempo.
15 o 14 minuti se poi voglio aggiungere un’immagine.
Già, ma quale, devo cercarla. Ma se cerco l’immagine se ne vanno altri 4 o 5 minuti.
Il conto alla rovescia è contro di me.

Decido di pensare e di non scrivere.
Un saluto