Giuseppe Munforte è bravo a creare sin dalle prime del suo romanzo una gabbia di vetro in cui rinchiude magistralmente il lettore, portandolo proprio lì, dove vuole lui, con ritmo e cadenza precisi.
Una scrittura ben dosata e calibrata capacissima di creare un flusso narrativo non veloce ma fluido e decisamente potente.
Infatti parola dopo parola la famiglia protagonista della vicenda si sedimenta nel lettore, nei suoi aspetti quotidiani, ma mai scontati e banali perché la principale bravura dell’autore è infatti di proporci un punto di vista originale, sempre accuratamente in bilico tra una visione critica e reale e una percezione onirica ed irreale della realtà tribale- familiare.
Nella Casa di Vetro, per l’appunto, è un libro statico, dove l’immobilità non è da intendersi come un difetto ma punto di forza e di appoggio.
Davide, questo è il nome della guida che Munforte offre al lettore in questo viaggio temporale, è il protagonista di una nota favola contemporanea, quella della ricerca della felicità che ci vede coinvolti ogni giorno.
Ma la Casa di vetro cambia e si evolve e così da gabbia iniziale, usata per imbrigliare la prosa accattivante comincia a cambiare l’importanza stessa del verbo, come una lente d’ingradimento, soffermandoci su valori troppo spesso accantonati in nome di un qualcosa non ben definito che ci attacca sempre dall’esterno e solo l’amore è un ancora di salvezza.
Quando dormi, e ti vedo lontana per sempre, vorrei chiamarti e dirti: lo senti, amore, lo senti ora, mentre sembra che stiamo volando attraverso la notte, in questa casa squarciata, senza speranza di farcela – un fuoco sferzato dal gelo – , lo senti, in questo momento, come tutto questo abbia senso?