Ci sarebbe poi da raccontare anche questa mia versione della realtà:
non meno meritevole ma nemmeno più meritevole di tante altre.
Il giusto si diceva.
Storia di mezzo si diceva.
Tra il nulla e il tutto.
Vista attraverso lo sguardo sommerso di chi ne ha viste troppe e ne ha vissute poche
Intro
Il sole era un amaca dal risvolto sbagliato e la terra dell’inverno si apprestava nuovamente ad addormentarsi.
Il terreno in rilievo si apprestava a venir sepolto dallo sperma divino a forma di neve che nuova vita avrebbe portato nel seguente anno e nel successivo ciclo di esistenza che stava ormai per riaprirsi.
Il cambio del guardaroba annunciava l’arrivo dei saldi e la partenza dei soldi.
Nuovi tassi d’interesse, nuove tasse governative e nuovi tagli del costo del denaro.
Il 29 era stato in bianco e nero mentre ora avevamo il lusso di vivere una crisi tutta a colori.
Portavo ancora il giubbotto di 4 anni fa, i pantaloni di tre anni fa, la maglia di due anni fa e le mutande di qualche mese, seppur cambiate stamattina.
Non mi facevo la barba dal tre giorni e il viso mi prudeva fastidiosamente…
Vivevo per arrendermi in un’era precipitante al crepuscolo, dove gli eroi erano creati a immagine e misura del momento in modelli sempre più simili all’uomo comune.
Un appiattimento il nostro dall’alto verso il basso della società dove immancabilmente si finiva con il venire schiacciati.
Il mondo si avvicinava al suo conto alla rovescia, quello normale e tranquillizzante di ogni anno, non quello illusorio finale e definitivo.
In segno di ciò e di quanto detto prima il mondo dell’uomo cambiava per non mutare ripetendo il rito e cambiando solo i costumi.
Rolex Daytona, Swatch, antichissime pendole, folcloristici cucù, griffatissimi D&G e/o Cavalli, precisissimi Pringeps/Sector/ Lorenz; calciatori, attori, presidenti dell’associazione del nevischio e accozzaglie varie di titoli e di scalate sociali macinavano gli ultimi istanti dell’ultimo anno nell’aperta intenzione di fa sì che le cose con l’anno nuovo non mutassero precipitando l’esistenza tutta verso il lento e inesorabile declino che la mente umana aveva da tempo programmato per se stessa, un’eutanasia sociale e solitaria ben applaudita dai proprietari di cose, di aspetti e di idee.
Ma non per Strindberg e non per me.
Capitolo uno
Avevo i piedi bagnati, affondati nella neve,segnati com’erano da fatica e sudore che avevano regalato una nuova geografia alla consumata mappa delle mie estremità inferiori, gonfie e graffiate, irriconoscibili in questa loro nuova versione, ultimo risultato di un’intera vita spesa in cammino lungo diversi sentieri come quelli mai presi.
Devono essere stati gli scarponi per forza, penso, la loro pelle lavorata e cucita che va a lacerare la mia fragile scorza, non più tanto dura, dopo nove ore di inutile cammino.
I mie piedi camminano crosta contro crosta per ore sotto il sole in un mondo che unisce Goethe a Eva Kant, Elvis a Maradona, Marx a Keynes e Darth Vader al Dalai Lama, senza capirci davvero nulla.
Per questo appare un sollievo la scissione del corpo dalla mente mentre calpesto le vecchie piastrelle di casa in un casalingo e autarchico pensiero zen improvvisato.
Seguo un percorso antico dal bagno fino al terrazzo della cucina passando per il corridoio in una mappa di piastrelle grigie prima e nere poi per finire con l’approdo della ceramica cotta ad accompagnare la vista.
Non sono sempre stato attento a guardare i particolari come a curarmi i piedi ma devo dire che ora è un periodo così minuzioso.
No, non sono un feticista temporaneo ma so che per l’indomani, i miei piedi, mi sarebbero nuovamente serviti al loro meglio; vuoi per una fuga improvvisa, per un calcio spedito o per chissà cos’altro.
Sono tempi di piedi questi, non di testa.
Dal balcone appiattito la vista è quella di sempre, quella che mi ha accompagnato apparentemente per tutta la infanzia e di cui solo recentemente mi sono riappropriato dopo un così lungo e squilibrato cammino.
Forse è stato il mio sguardo a cambiare, la mia conoscenza a mutare o è la mia amarezza che soffia forte sulle punte dei polpastrelli arrossati e consumati, impronte di un’identità anonima, terminali di questa mani ormai troppo adirate e sconce nella lotta persa con i piedi.
Nel frattempo dopo anni di ben pensare in abitudine un enorme gru, da subito eletta a simbolo fallico, torreggiava sul palazzo della posta, lì immobile com’era a ricordarmi lo scorrere del tempo (forse a intendere in maniera subliminale che dovevo spedire il mio organo maschile altrove).
La facciata di quel vecchio palazzo era sì da rifare ma non potevo fare a meno di ripetermi che per rovinarsi aveva impiegato molto più tempo rispetto ad un qualsiasi edificio di città.
La mancanza di agenti atmosferici deviati dalla presenza di altri eminenti palazzi o una presenza minore di agenti inquinanti facevano capire che sì, davvero qui in fondo si poteva vivere meglio e che forse la mia gru sarebbe stata dritta per molto altro tempo ancora anche se in questo preciso e determinato momento mi sentivo proprio come il vecchio palazzo della posta: in piena fase di ristrutturazione sotto un cielo blu a chiazze viola e con qualche stella da approfondire successivamente.
La terra era ormai devastata concimata com’era dai fiori a raccolta punti con contributo supplementare dei supermercati, dove i nostri corpi morti passeggiano, spingono carrelli, dondolano, bruciano e si scontrano tra un’offerta promozionale e un’elegia dimessamente soffocata per i prodotti usciti dal mercato.
Il rock è diventato punk, il pop hip hop in contorte melodie armoniche che si sprecano nelle marce quotidiane.
Si muore in questo modo ai giorni d’oggi, un po’ così, sepolti, dimenticati, soppiantati, sostituiti, contestualmente: si esce dal mercato come perfetti dischi di vinile nero, pieni di solchi e di imperfezioni nel rumore che definiscono l’anima, per venire soppiantati da codici binari di uno e di zeri così perfetti da annullare l’economia del mercato.
Siamo ormai così assuefatti a ciò che non ce ne rendiamo nemmeno più conto del potere dei corpi morti, ovunque, nelle visioni, nel campo politico e nei loro insaziabili visioni dei sogni.
Corpi morti così veloci a precipitarsi dal passato nel nostro compianto presente dove non siamo veramente pronti per questa rissa culturale che alimenta i vivi.
Così il poema epico delle nostra vite viene raccolto e raccontato nelle carte di credito, negli assegni, negli archivi bancari dove tutto viene esposto in previsioni ed espresso in percentuali suggerite dai corpi morti sorridenti che ci assillano e che puzzano lì appesi, bruciati e sepolti assieme alla speranza del sangue
dug blood hope
in the pain of the wrist
this land without crap’s baby
Le città si scompongono all’arrivo della neve.
Senza scomodare Elliot, Blake e visione profetiche, rimanevo un disoccupato con un lungo futuro di squilibrio davanti in un mondo equilibrato e calibrato macro