Bruno Schulz, l’illegalità di esistere di un salmone, di un Messia e di un nome

Bruno Schulz è uno scrittore ma è anche un salmone, un messia o forse un nome che risuona nelle pagine della lettera mondiale? Lo scrittore ebreo polacco è stato, ma soprattutto è tutto ciò ma non solo.

Autore di culto, apprezzato e amato, il suo lavoro può diventare una magnifica ossessione destinata a segnare intere esistenze. Italo Calvino, nome che non ha certo bisogno di presentazioni, accoglieva così la traduzione in italiano de “Le botteghe color Cannella”: «Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più.»

La vita mortale di Schulz finì il 19 novembre 1942, giorno in cui un ufficiale della Gestapo sparò a Schulz lungo una strada di Drohobycz. Secondo un’accreditata versione dei fatti, lo scrittore venne ucciso per una sorta di scellerata ed insipida vendetta. Il suo corpo non fu mai ritrovato dopo che fu gettato in una fossa comune.

La forza vitale dello scrittore scorre ancora potente nelle pagine delle sue opere: “Le botteghe color cannella”, “Il sanatorio all’insegna della clessidra” e “La cometa”. A questi dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, aggiungersi “Il messia”, un testo che sembra essere perduto. Sono state ritrovate solo alcune illustrazioni.

Ma chi era in realtà Schulz? Bruno è uno scrittore ebreo polacco importante per la letteratura, importante per me e importante per tanti scrittori importanti che da lui sono stati influenzati, basti citare David Grossman, Ugo Riccarelli, Cynthia Ozik e Jonathan Safrar Foer.

Cominciamo a parlare di Cynthia Ozick, scrittrice che nutre nei suoi confronti un’immensa ammirazione. A lui ha infatti dedicato “Il messia di Stoccolma”, un romanzo pubblicato nel 1987 animato da tratti grotteschi e ossessivi. Il protagonista dell’opera è infatti un recensore di libri che nessuno legge di nome Lars, ossessionato dalla sua provenienza. Sa, infatti, di essere arrivato in Svezia da bambino e di esserci arrivato da quel paese lì, dalla Polonia.

Lars vive solo per i libri, ossessionato dall’opera mancante di Schulz, tanto da autoconvincersi che Bruno sia suo padre. Non solo ne è fortemente convinto, lui sa che Schulz è suo padre. “Ho tutti i particolari del suo viso, lo conosco a memoria. Conosco quasi ogni parola che abbia scritto. Padre e figlio. Ci assomigliamo come due gocce d’acqua. Lo stesso naso – lo vede il mio mento come finisce a punta? E non è neanche una questione di lineamenti: c’è affinità – la sua voce, la sua mente”.

In questo modo potremmo dire che Schulz è quindi il padre di ogni scrittore “mitico”. Seguendo invece le tracce della sua biografia e del suo romanzo, Le botteghe color cannella, Ugo Riccarelli dipinse un altro ritratto di “un uomo che forse si chiamava Schulz”. La vicenda ha qui inizio in una cittadina della sonnacchiosa Galizia imperiale, prima polacca, poi sovietica e oggi ucraina, dove la famiglia Schulz gestisce un negozio di tessuti al dettaglio. Tra queste mura infinite Bruno impara a fuggire dalla realtà dipingendo, scrivendo e sognando. Ma non si può fuggire in eterno. La storia, quella della guerra degli uomini arriva a sconvolgere anche questo angolo di mondo…

Apprendiamo quindi che la letteratura ha perso questo suo padre a causa dello Shoah, tragedia che rappresenta una drammatica perdita in campo letterario (e non solo ovviamente).

Come ci viene descritto nel saggio “Shtetl” di Eva Hoffman (pubblicato da Einaudi) esisteva un mondo davvero unico e irripetibile che viveva all’interno di migliaia di piccoli villaggi dell’Europa dell’Est. Hoffman si è concentrata su un paesino di nome Bransk, nella campagna polacca ai confini con l’attuale Bielorussia, che prima della guerra annoverava circa 4600 abitanti, equamente divisi fra ebrei e cristiani. Oggi non ci sono più ebrei a Bransk. Rimangono solo tracce ed echi che risuonano di tristezza, rabbia, senso di colpa e negazione del passato. In Polonia continuano a vivere alcune migliaia di ebrei, ma la loro cultura, le loro comunità sono scomparse. I villaggi ci sono ancora, ma il mondo che vi pulsava, i negozi, il suono dello yiddish e dell’ebraico, non ci sono più. E dire che proprio nello shtetl – diminutivo di shtot, in yiddish «città» – nel corso dei secoli si era realizzata un’esperienza multietnica, caratterizzata dalla compresenza di due società povere, gli ebrei ortodossi e un mondo contadino premoderno; lo shtetl era diventato una realtà sociale insolita, ma dotata di straordinarie risorse. È questa realtà sociale che Eva Hoffman, attraverso l’indagine scientifica e la ricerca sul campo, indaga con minuzia e passione: nel tentativo di spiegare perché nello shtetl gli ebrei furono oggetto della più incontrollata crudeltà da parte dei vicini, ma anche della più spontanea generosità; e nella speranza che una ricostruzione storica obiettiva sia anche un messaggio di tolleranza.”. Questa era la Drohobycz di Schulz.

Mancanze improvvise e tragiche, pagine non scritte, amore e vita che ci sono stati tolti, portati via, rubati, strappati con inaudita e insensata violenza. Bruno Schulz, scrittore assunto a mito letterario concreto, tanto che David Grossman nel suo “Vedi alla Voce Amore” si immagina la metamorfosi dello scrittore polacco che rifugge da tutto, per precipitarsi nel gorgo della storia, mutando in un salmone in “Quel paese là”.

Un altro grande scrittore Jonathan Safran Foer ha invece dedicato a Schulz una vera e propria tangibile scultura letteraria. L’autore di “Ogni cosa è illuminata” ha estrapolato le parole presenti nei racconti “La via dei Coccodrilli”, uno dei libri preferiti di Foer per ricreare, omaggiando, qualcosa di completamente nuovo.

Tree of Codes, questo il titolo del romanzo/esperimento, rimasto da noi inedito può di fatto paragonarsi ad un opera di cesello. Le sue frasi nascono da ritagli, si fanno intravedere nelle pagine successive ma sono tutte frutto del genio di Schulz.

Queste le parole di Safran Foer, intervistato all’epoca, in merito a Tree of Codes: “Ci sono cose per cui hai un amore passivo, altre che ami attivamente. In questo caso, sentivo il bisogno di fare qualcosa con The Street of Crocodiles. Poi ho cominciato a riflettere su come sono fatti i libri, come saranno in futuro, come la loro forma stia cambiando molto velocemente. Se non ci dedichiamo una riflessione approfondita, non andrà a finire bene. C’è un’alternativa agli e-book. E io amo la fisicità dei libri.”

Bruno Schulz è uno scrittore, un salmone, un messia o forse un nome?

«Da oggi la letteratura europea del Novecento conta tra i suoi maestri un nome in più.» Così nel 1970 Italo Calvino salutava la traduzione in italiano dell’unico libro di Bruno Schulz, pittore e scrittore ebreo polacco ucciso nel 1942 dalla pallottola di un ufficiale nazista.

Il 19 novembre 1942 un ufficiale della Gestapo spara a Schulz lungo una strada di Drohobycz. Secondo un’accreditata versione dei fatti, Bruno Schulz venne ucciso per una sorta di scellerata ed insipida vendetta. Il suo corpo non fu mai ritrovato, gettato in una fossa comune.

Lo scrittore polacco vive ancora nelle sue opere: “Le botteghe color cannella”, “Il sanatorio all’insegna della clessidra” e “La cometa”. A ciò dovrebbe aggiungersi “Il messia”, un testo andato perduto, di cui sono state ritrovate solo alcune illustrazioni.

Ma chi era in realtà Bruno Schulz? Bruno Schulz è uno scrittore ebreo polacco importante per la letteratura, importante per me e importante per scrittori importanti che da lui sono stati influenzati, come ad esempio David Grossman, Ugo Riccarelli, Cynthia Ozik e Jonathan Safrar Foer.

Partiamo da Cynthia Ozick che nutre nei suoi confronti un’immensa ammirazione. A lui ha infatti dedicato “Il messia di Stoccolma”, un romanzo uscito nel 1987 animato da tratti grotteschi e ossessivi. Il protagonista è un recensore di libri che nessuno legge, Lars è quasi ossessionato dalla sua provenienza. Sa di essere arrivato in Svezia bambino e di esserci arrivato dalla Polonia

Vive solo per i libri, ossessionato dall’opera mancate di Schulz, tanto da autoconvincersi che Schulz sia suo padre. Non solo è convinto, lui sa che Schulz è suo padre. “Ho tutti i particolari del suo viso, lo conosco a memoria. Conosco quasi ogni parola che abbia scritto. Padre e figlio. Ci assomigliamo come due gocce d’acqua. Lo stesso naso – lo vede il mio mento come finisce a punta? E non è neanche una questione di lineamenti: c’è affinità – la sua voce, la sua mente”.

Schulz è quindi il padre di ogni scrittore. Seguendo invece le tracce della sua biografia e del suo romanzo, Le botteghe color cannella, ma soprattutto lasciandosi ispirare dai vuoti di quel libro e di quella vicenda, Ugo Riccarelli dipinge il ritratto di “un uomo che forse si chiamava Schulz”. La storia inizia in una cittadina della sonnacchiosa Galizia imperiale, poi polacca, sovietica e infine ucraina, dove la famiglia Schulz ha un negozio di tessuti al dettaglio. Qui Bruno impara a fuggire dalla realtà dipingendo, scrivendo e soprattutto sognando. Ma non può fuggire sempre, soprattutto quando la Grande Storia arriva anche nel suo angolo di mondo…

Il mondo della letteratura ha perso questo suo padre a causa dello Shoah, tragedia che rappresenta una drammatica perdita in campo letterario (e non solo ovviamente).

Come ci viene descritto nel saggio “Shtetl” di Eva Hoffman (pubblicato da Einaudi) esisteva un mondo davvero unico e irripetibile che viveva all’interno di migliaia di piccoli villaggi dell’Europa dell’Est. Eva Hoffman si è concentrata su un paesino di nome Bransk, nella campagna polacca ai confini con l’attuale Bielorussia, che prima della guerra contava circa 4600 abitanti, equamente divisi fra ebrei e cristiani. Oggi non ci sono più ebrei a Bransk. Soltanto tracce ed echi che risuonano di tristezza, rabbia, senso di colpa e, a volte, negazione del passato. In Polonia continuano a vivere alcune migliaia di ebrei, ma la loro cultura, le loro comunità sono scomparse con la Seconda guerra mondiale. I villaggi ci sono ancora, ma il mondo che vi pulsava, i negozi, il suono dello yiddish e dell’ebraico, non ci sono più. E dire che proprio nello shtetl – diminutivo di shtot, in yiddish «città» – nel corso dei secoli si era realizzata un’esperienza multietnica, caratterizzata dalla compresenza di due società povere, gli ebrei ortodossi e un mondo contadino premoderno; lo shtetl era diventato una realtà sociale insolita, ma dotata di straordinarie risorse. È questa realtà sociale che Eva Hoffman, attraverso l’indagine scientifica e la ricerca sul campo, indaga con minuzia e passione: nel tentativo di spiegare perché nello shtetl gli ebrei furono oggetto della più incontrollata crudeltà da parte dei vicini, ma anche della più spontanea generosità; e nella speranza che una ricostruzione storica obiettiva sia anche un messaggio di tolleranza.”.

Parlavamo di mancanza, di pagine non scritte, di quello che ci è stato tolto, portato via, rubato, strappato con violenza. E a questo punto non possiamo non parlare di Bruno Schulz, l’autore de “Le botteghe color cannella”, scrittore diventato un vero e proprio mito letterario. Lo stesso David Grossman nel suo “Vedi alla Voce Amore” si immagina la metamorfosi dello scrittore polacco che rifugge da tutto, precipitando nel gorgo della storia, mutandosi in un salmone in “Quel paese là”. Un paese che ha visitato, suo malgrado, la zia Itka, il cui numero tatuato sul braccio sarà per sempre muto testimone del campo di sterminio in cui venne imprigionata.

Bruno e l’illegalità di esistere (di Fabio Izzo)

In un creato a dimensione divina Bruno aveva smesso di resistere.

Una solar in più lo aveva allontanato dall’esistenza.

Bruno aveva perso il suo Messia, l’aveva nascosto in qualche pozzanghera il giorno dopo piovuto, l’aveva immerso in  un campo di grano appena trebbiato, lo aveva inzuppato in una tazza marrone di caffè rendendolo attivo e ipnotico, lo aveva mimetizzato nell’odore del pane caldo che inonda l’aria delle mattine estive.

Perché Bruno, come solo lui sapeva fare, amava la Stagione, tanto che l’estate l’aveva definita sua, tutta.

Il Messia di Bruno, in quella che per lui era la stagione prima, aveva avuto vita propria.

Un dono inaspettato in tempi che non aspettavano di sicuro la vita.
Giorni che ormai sembrano essere dimenticabili, in questo tempo non prezioso che ha asfaltato violentemente i pensieri felici; altri messia si erano affacciati ,con altre identità, predicando il disprezzo per l’originale, se non proprio che il disprezzo per Bruno stesso, ultimo rappresentante di una razza non resistente.

Tutto ciò avveniva seguendo il ciclo del sole, da quando era nato, da quando quel celato mistero della nascita l’aveva inaspettatamente scaraventato sulla parte lucida del mondo.
Solo che a lui, non l’avevano avvertito; nessuno lo considerava e tanto meno nessuno l’avrebbe avvertito nei suoi  sorrisi spezzati e così il suo primo sguardo sul mondo cadde pieno di meraviglia.

Meraviglia tutta e ultima.

Meraviglia coraggiosa che si frantuma contro la vigliaccheria del mondo. Coraggiosi risultavano essere i suoi occhi ad aprirsi ostinatamente conoscendo solo il buio.

La prima cosa che vide fu  l’insieme di tutte quelle variazioni della luce che poi avrebbe imparato a chiamare colori, il nero. Meraviglia era quella linea che divideva il chiaro dallo scuro, meraviglia erano quei  cavalieri dorati che bucavano l’oscurità con il loro coraggio di risplendere nella notte.

Aveva dimenticato i pesanti Golem, le lettere sacre, le vendette dall’alfa al beta, Bruno al suo Messia aveva prestato, senza chiedere nulla in cambio in un gesto di amore assoluto, il suo sguardo sul mondo.

Il Messia doveva così vedere, sarebbe stato costretto dunque a vedere con gli occhi di Bruno ma in questo momento era un Messia distratto che non stava guardando.

Elaborava dati, concetti, pergamenava tutto.
Il creato intero era steso sulla sua pergamena.

Aveva abbandonato Bruno, era fuoriuscito dalle sue mani e se ne era andato per una parusia fine a se  stessa.

Abbandonato Bruno, si guardava le mani e le chiudeva, le apriva, le stringeva, le faceva mulinare nel vuoto come se le sue mani avessero ancora qualcosa del Messia in loro e come se quel qualcosa fosse destinato al mondo e Bruno, allora,voleva distillare ogni goccia di tutto  da quelle sue mani, scrutandole, osservandole e rimuginandoci sopra.

Sono mani: hanno cinque dita, cinque strade verso dio più o meno lunghe, protese verso la mortalità di chiunque.

Sono mani: pelose, con i palmi glabri, sacri agli indù e al sacro burro.

Sono mani: possono aprirsi, possono aprire la strada verso dio e possono chiudersi, chiudersi infinite volte su stesse in spirali e forme elicoidali.
Possono dischiudersi e perdere qualsiasi sentiero per l’immortalità.
Possono stringere, possono stringere altre mani, altri amori, possono stringersi e serrarsi su promesse, su parole di odio e di morte.

Sono mani che possono ferire, come  procrastinare l’immortalità.
Sono anche  mani che possono offendere.

Ma Bruno sa, sa che le sue mani, trattengono e rilasciano parole di getto, che inaspettatamente immortalano lamine di tempo bianche.

Sa che sono mani che creano e sospetta che derivi proprio da queste mani la sua illegalità a vivere. Le guarda, le studia, non le sa leggere ma le sa portare.
Le chiude, stringe i palmi e li nasconde serrati nelle tasche profonde di oscurità, per ogni anima immortale o maledetta a essere tale.

È buffo come un ponte si stenda sempre di fronte ai destini umani:

Sopra un ponte ci stanno i demoni ad aspettarti, sotto il ponte i demoni ti hanno già preso, il resto è solo acqua che scorre incurante della tua miseria umana. Salve, sono Bruno Schulz!”stava parlando riflettendosi a secco in un tazza stagnante di pensieri e caffè:

E un giorno morii, a caso e nemmeno tanto a stento.i ncredibile la storia della mia trasformazione. Io piccolo matto scrittore provinciale con la sola unica e massima ambizione di arrivare a intravedere i tessuti arcani del creato. Non sono mai stato padre anche se ho creduto all’amore.

Ho creduto all’amore sbagliato dove io, per paura, davo tutto me stesso.

E devo dire che si presero tutto, sempre.

E rimasi con le piccole piume di un pavone a sventolare sugli spiragli di questa realtà. Ma la storia o almeno la mia storia, piccola macchia di caffè in qualche sperduto luogo d’atlante universale, quella stessa storia che è arrivata alla mia proclamazione di morto è ben più lungo di un caffè annacquato. Ricordo che nacqui, avvolto in mitologie pre-esistenti già a mio padre, così uscii, io frutto di qualcosa già consacrato ad altro.

Quelle lenzuola furono le mie nubi, gli spettri del mio disagio.

Ritrovarmi nuovamente avvolto in cose vecchie. Ne tiravo i lembi già da piccolo perché a me, troppo stretti. La mia prima parola forse fu mamma, che in seguito riguardo a quella mitologia di cui accennavo prima, dovetti trasformare in madre. Le parole hanno un loro rigido significato.

È la mente umana che le rende elastiche assottigliandone la forma per maneggiarle al meglio. Siamo capaci di plagiare la volontà delle parole in atti di diversi significati. E così io lo imparai presto che la gente non dice quello che vuole dire ma solamente quello che riesce a dire.

Come me, come voi, in questa bocca inzuffata di cozze in sorrisi smorzati per me.

Poi d’improvviso ricordo.

Sono solo un povero piccolo pazzo scrittore provinciale che troppe volte ha sfidato gli dei , solo per essere ignorato. A coloro che gli dei temono recano loro in dono la pazzia. Poi scoprirono il caffè e lo diedero in dono agli artisti, reietti tra i pazzi.

Gente che in una tazza, in un fondo, non vede un futuro affondato ma un presente compresso privo di comprensione..”

Nel 1973 il regista polacco Wojciech Has ha realizzato un lungometraggio da “Il Sanatorio all’insegna della Clessidra”, The Hour-Glass Sanatorium (Polish: Sanatorium pod klepsydrą) recentemente ristampato in Dvd per il mercato inglese.

Bruno aveva perso il suo Messia, l’aveva nascosto in qualche pozzanghera il giorno dopo piovuto, l’aveva immerso in  un campo di grano appena trebbiato, lo aveva inzuppato in una tazza marrone di caffè rendendolo attivo e ipnotico, lo aveva mimetizzato nell’odore del pane caldo che inonda l’aria delle mattine estive.

Perché Bruno, come solo lui sapeva fare, amava la Stagione, tanto che l’estate l’aveva definita sua, tutta.

Il Messia di Bruno, in quella che per lui era la stagione prima, aveva avuto vita propria.

Un dono inaspettato in tempi che non aspettavano di sicuro la vita.
Giorni che ormai sembrano essere dimenticabili, in questo tempo non prezioso che ha asfaltato violentemente i pensieri felici; altri messia si erano affacciati ,con altre identità, predicando il disprezzo per l’originale, se non proprio che il disprezzo per Bruno stesso, ultimo rappresentante di una razza non resistente.

Tutto ciò avveniva seguendo il ciclo del sole, da quando era nato, da quando quel celato mistero della nascita l’aveva inaspettatamente scaraventato sulla parte lucida del mondo.
Solo che a lui, non l’avevano avvertito; nessuno lo considerava e tanto meno nessuno l’avrebbe avvertito nei suoi  sorrisi spezzati e così il suo primo sguardo sul mondo cadde pieno di meraviglia.

Meraviglia tutta e ultima.

Meraviglia coraggiosa che si frantuma contro la vigliaccheria del mondo. Coraggiosi risultavano essere i suoi occhi ad aprirsi ostinatamente conoscendo solo il buio.

La prima cosa che vide fu  l’insieme di tutte quelle variazioni della luce che poi avrebbe imparato a chiamare colori, il nero. Meraviglia era quella linea che divideva il chiaro dallo scuro, meraviglia erano quei  cavalieri dorati che bucavano l’oscurità con il loro coraggio di risplendere nella notte.

Aveva dimenticato i pesanti Golem, le lettere sacre, le vendette dall’alfa al beta, Bruno al suo Messia aveva prestato, senza chiedere nulla in cambio in un gesto di amore assoluto, il suo sguardo sul mondo.

Il Messia doveva così vedere, sarebbe stato costretto dunque a vedere con gli occhi di Bruno ma in questo momento era un Messia distratto che non stava guardando.

Elaborava dati, concetti, pergamenava tutto.
Il creato intero era steso sulla sua pergamena.

Aveva abbandonato Bruno, era fuoriuscito dalle sue mani e se ne era andato per una parusia fine a se  stessa.

Abbandonato Bruno, si guardava le mani e le chiudeva, le apriva, le stringeva, le faceva mulinare nel vuoto come se le sue mani avessero ancora qualcosa del Messia in loro e come se quel qualcosa fosse destinato al mondo e Bruno, allora,voleva distillare ogni goccia di tutto  da quelle sue mani, scrutandole, osservandole e rimuginandoci sopra.

Sono mani: hanno cinque dita, cinque strade verso dio più o meno lunghe, protese verso la mortalità di chiunque.

Sono mani: pelose, con i palmi glabri, sacri agli indù e al sacro burro.

Sono mani: possono aprirsi, possono aprire la strada verso dio e possono chiudersi, chiudersi infinite volte su stesse in spirali e forme elicoidali.
Possono dischiudersi e perdere qualsiasi sentiero per l’immortalità.
Possono stringere, possono stringere altre mani, altri amori, possono stringersi e serrarsi su promesse, su parole di odio e di morte.

Sono mani che possono ferire, come  procrastinare l’immortalità.
Sono anche  mani che possono offendere.

Ma Bruno sa, sa che le sue mani, trattengono e rilasciano parole di getto, che inaspettatamente immortalano lamine di tempo bianche.

Sa che sono mani che creano e sospetta che derivi proprio da queste mani la sua illegalità a vivere. Le guarda, le studia, non le sa leggere ma le sa portare.
Le chiude, stringe i palmi e li nasconde serrati nelle tasche profonde di oscurità, per ogni anima immortale o maledetta a essere tale.

È buffo come un ponte si stenda sempre di fronte ai destini umani:

Sopra un ponte ci stanno i demoni ad aspettarti, sotto il ponte i demoni ti hanno già preso, il resto è solo acqua che scorre incurante della tua miseria umana. Salve, sono Bruno Schulz!”stava parlando riflettendosi a secco in un tazza stagnante di pensieri e caffè:

E un giorno morii, a caso e nemmeno tanto a stento.i ncredibile la storia della mia trasformazione. Io piccolo matto scrittore provinciale con la sola unica e massima ambizione di arrivare a intravedere i tessuti arcani del creato. Non sono mai stato padre anche se ho creduto all’amore.

Ho creduto all’amore sbagliato dove io, per paura, davo tutto me stesso.

E devo dire che si presero tutto, sempre.

E rimasi con le piccole piume di un pavone a sventolare sugli spiragli di questa realtà. Ma la storia o almeno la mia storia, piccola macchia di caffè in qualche sperduto luogo d’atlante universale, quella stessa storia che è arrivata alla mia proclamazione di morto è ben più lungo di un caffè annacquato. Ricordo che nacqui, avvolto in mitologie pre-esistenti già a mio padre, così uscii, io frutto di qualcosa già consacrato ad altro.

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