Nelle versioni ufficiali, quelle raccontate dalle petulanti voci dei media e quelle stampate tanto frettolosamente, quanto ufficialmente, nero su bianco dei libri di storia, è permesso usare e menzionare il termine Sisma.
Contrariamente a quanto avviene invece nella mia famiglia: per intenderci, da noi, tra le mura agitate delle nostre case, sisma non vuol proprio dire un emerito cazzo!
Pensate all’equazione “Sisma uguale media terremoto uguale memoria”.
Dovete sapere che il sisma non esiste, c’è invece da sempre o da tempo immemore IL Terremoto.
Qui da noi, tra noi, se volete farvi intendere dovete usare la parola Ter-re-mo-to!
Allora sì che avrete raccolto e destato la nostra attenzione.
Così come nella lingua napoletana “La stagione” è una sola ed è l’estate, ecco che il Terremoto divenne la nostra lingua.
Tutto quello che accadde dopo, la nostra storia, rimane impresso in un filamento di Dna nel nostro tessuto familiare.
A volte non c’è nemmeno bisogno di usare il sostantivo, basta usare un aggettivo: quello!
Quello degli anni 80, quello dell’Irpinia che ha scavato nelle vene e sulle facce di nonni e di zie i segni inequivocabili di un lungo destino ai limiti della sopravvivenza da lì a venire.
Quello che prima era e quello che dopo non sarebbe più contato allo stesso modo.
Fu come se il 23 novembre 1980 smise di essere un giorno del calendario.
Questo giorno smise di essere una data e abbandonò la dimensione temporale per trasferirsi disastrosamente in quella spaziale, diventando un crocevia tridimensionale di sconfitte.
Tra quei 2.914 morti, fortunatamente e casualmente, non ci fu nessuno compreso nella cerchia dei miei familiari, e forse anche per questo motivo il Terremoto divenne una serie di racconti, un patrimonio generazionale tramandato di bocca in bocca e che forse, solamente ora trova il suo spazio nel mondo della scrittura.
Mentre la terra tremava e il mondo si capovolgeva le persone erano, erano qualcos’altro in qualche istante prima…
La memoria di quel mondo è nata e si è sviluppata poi nel post terremoto.
Faccio fatica, anzi non ricordo assolutamente nulla di com’era o di cosa c’era precisamente in quel mondo prima del Grande Disastro.
Tutto quello che ho potuto ricostruire è come quell’evento influenzò la società , il suo modo di vivere e la lingua parlata di quella piccola e rivoltata comunità contadina.
Di certo anche ad Avellino città si era avvertita la pesantezza del dramma.
Lo stadio locale, il Partenio, la tana dei lupi bianoceverdi fu chiamato ad ospitare le tendopoli e in molto ancora ricordano le immagini al televisive dell’epoca.
Altri racconti dalla città sono arrivati da mio zio che in quel drammatico giorno se ne stava tranquillamente a cazzeggiare nei suoi venti anni, a fare vasche, a strusciare per il Corso Vittorio Emanuele in cerca di avventura e di ragazze.
– Era terribile, tremava tutto intorno e la cosa peggiore era che solamente io non tremavo.
Fisso, immobile come un palo fesso piantato su una terra che aveva deciso di scrollarsi di dosso tutto e tutti.
I palazzi alti intorno al Corso sembravano essere diventati all’improvviso dei ghiaccioli che andavano ripiegandosi e sciogliendosi su se stessi sotto il calore delle lingue di fuoco che si facevano spazio tra le fenditure della strada crepata.
Solo recentemente ho notato come nel racconto di mio zio manchi il boato iniziale, lo squillo della tromba dell’apocalisse, cosa che invece è sempre stata riportata dalle cronache di mio nonno.
Il padre di mia madre si trovava per le scale quando sentì la tromba della fine del giudizio, assordante e in grado di zittire tutti i battiti del cuore del mondo.
Ogni cuore, anche quello più coraggioso.
Poi fece le scale di corsa, dondolando di qua e di là, sballottato come un bambolotto di pezza nelle mani di un bambino capriccioso.
Ecco, a questo punto penso che si possa davvero capire come ci si sente in una situazione del genere.
Mio nonno, con le sue poche parole, l’ha descritto alla perfezione.
“Come un bambolotto di pezza nelle mani di un bambino capriccioso”, sballottato di qua e di là, nella mani di un destino incomprensibile che gioca con la tua esistenza negli attimi effimeri della sua eternità.
E nei paesi, gli affluenti sociali della città, furono maggiormente devastati.
Lì, si fa veramente fatica a trovare un evento, un luogo, una persona che non venne contaminata dai fatti di quel Terremoto.
Quando tornavo nei luoghi dell’infanzia scoprivo davvero l’effetto della rivoluzione innaturale provocata dal disastro naturale.
Il paese alto era crollato o pericolante e così quasi tutto era trasferito in basso, nella valle vicino al fiume.
In alto, nel vecchio borgo diroccato rimaneva poco.
Rimaneva la fontanella d’acqua, ormai chiusa e dove una volta le donne del paese si riunivano per approvvigionarsi di acqua e di storie locali ormai erano più i fantasmi che altro.
Tutta la bassa magia del mondo agricolo era legato a quella fonte d’acqua.
Tutti gli incontri con gli spiritelli magici, l’invidia iettatrice, gl’uocchie, tutto girava lì intorno e tutto era stato essiccato dagli eventi del post terremoto.
Quel mondo magico cessò lì, andò a scontrarsi con le promesse progressiste degli anni 80, dove la tecnologia e la moderna edilizia avrebbero sopperito ai bisogni e alle necessità di una popolazione cacciata di casa, sfollata.
Ricordo i prefabbricati, umano frutto innaturale della terra, del terremoto e le colonne di container piene di misteri. Ricordo delle domande fatte a mia madre quando io ormai globalizzato mi spostavo verso i Beatles e le chiedevo:
“Mamma ma tu che ascoltavi, li ascoltavi i Beatles e i Rolling Stones?”
E ve lo giuro che la sua risposta fu Gianni Morandi! Davvero, lei ascoltava Gianni Morandi perché lui era arrivato fin lì dove i Beatles, i Rolling Stones e lo steso Gesù non erano riusciti a penetrare restando a Jevule, Eboli nel dialetto locale.
E c’era una mamma che ascoltava Gianni Morandi al posto dei Beatles e dei Rolling Stones e allora evviva Gianni Morandi.
E ricordo gli accenti svizzeri, tedeschi e irpini tutti mischiati in un casalingo melting pot nei miei compagni di gioco dell’epoca dai nomi sbiaditi.
Tutti così diversi da quelli che portavo in bocca e conservavo nelle mie orecchie.
Ricordo le domande dure e semplice come quelle genti.
Da dove vieni, di chi sei figlio, a chi sei nipote.
Acqui Terme e Alessandria sembravano proprio non essere in grado di soddisfarli, tutti i miei punti di riferimento, la mia altra esistenza non doveva dire proprio nulla alle loro orecchie.
Davidino, il nome con cui era conosciuto mio nonno in paese, era invece una porta verso molti sorrisi e verso qualche pizzicotto sulle mie guance paffute che mal sopportavo.
Comunque sia anche se non capivo molto in quel paese ci scorrazzavo in tutta tranquillità.
Mia madre, tornata alla tranquillante serenità della sua arcadia personale, mi lasciava ampi margini di manovra che altrove non mi erano concessi.
Mentre mia sorella frequentava le sue amiche, io a modo mio scoprivo il mondo.
Giravo, consumavo chilometri su quelle mie gambotte e guardavo, osservavo, mi incuriosivo sull’esistenza reale di questo altro mondo.
A scuola erano soliti insegnare l’alfabeto con nomi di animali non tenendo conto del fatto che nell’arco della tua vita questi animali non li non vedrai mai a meno che di partire per un safari o abbonarti comodamente al servizio delle tivù a pagamento; e lasciamo perdere la E di Elefante che dopo qualche riforma scolastica è diventata E come elica, ma M di maiale, C di capra e cavallo, P di Pecora erano tutte divinità pagane su al nord dove il più profondo contatto con la natura era la ruota del criceto.
Ricordo anche che c’era un bambino che pensava di essere bravo nell’imitazione del pavone ma non so su cosa si sia basato per questa sua opinione, forse sui documentari televisivi di Quark, perché per sua stessa ammissione non aveva mai visto un Pavone fino al raggiungere della sua maggiore età, quando per i suoi 18 anni si regalò una proibita visita al “Pavone”, poco distinto night club della provincia che sull’insegna riportava un disegno improbabile di questo uccello perso nelle ombre dell’urbanizzazione forzata che certi governi sempre hanno promosso.
Ma io per la prima volta avevo davvero l’opportunità di scoprire la natura:
conigli (i cucci come li chiamavano), i porcellini d’India, le bisce e perfino gli scorpioni che, perché pericolosi, mi piacevano un sacco.
Li intrappolavo sotto a un bicchiere di vetro capovolto e stavo a guardarli mentre agitavano la loro coda contro il vetro.
Crudeltà da bambino.
Andavo ogni tanto a trovare un uomo che doveva essere un santo per sopportarmi.
Amava dipingere ricordo che lo trovavo sempre a dipingere.
Lavorava in Svizzera, emigrato.
In vacanza tornava sempre al Paese.
Stava due case più in su di quella di mia zia.
C’era nel suo cortile un cancelletto verde.
La casa di Rodolfo era sempre aperta e io entravo senza preavviso.
Forse vedeva in me la probabile condizione di un suo eventuale figlio: senza terra e senza radici, non lo so, anche stavolta non ho la risposta giusta.
Lui se ne stava lì a dipingere fino a quando non si accorgeva della mia presenza.
Poi mi invitava a sedere.
Mi offriva da bere orzata o menta, anche se in realtà era più orzata che menta.
E parlava, mi raccontava di questa Svizzera così lontana, più lontana di Alessandria e incredibilmente ancora più fredda nei suoi lunghi inverni, di cui non avevo idea.
Mi insegnò anche due giochi con le carte: briscola, per giocare con lui, e un solitario per quando lui non ci fosse stato.
Io non l’ho più rivisto ora che mi sono fatto grosso ormai, ma il tempo ha conservato nella mia mente il suo ricordo e il suo viso.
So, per sentito dire da qualcuno, che una volta raggiunta la pensione lasciò quella Svizzera così estranea e se ne tornò in quella che lui considerava da sempre casa sua.
Mi auguro che sia ancora lì.
A dipingere o meno.
E a giocare a carte con qualcuno meno noioso di me.
Un altro personaggio che ben rappresenta il mistero di questo Sud verso cui sto sonnacchiosamente sferragliando sui binari (non dimenticate la storia in corso), si chiamava Ferdinando ma per me divenne teatralmente Eduardo.
Era Eduardo un personaggio, non un personaggio, un uomo che rappresentava la summa delle opere di De Filippo.
Era un giovane, afflitto da qualche disturbo o malattia mentale che in paese avevano fatto presto a riassumere sotto il soprannome de “O Paccio”.
Ferdinando il pazzo.
Abitava in una casa situata lungo una discesa.
O una salita per i pessimisti.
La via era ripida e univa il borgo vecchio a quello nuovo in costruzione nel fondo valle nel dopo terremoto. Non era un passaggio obbligatorio per me, c’era un’altra strada meno ripida che raggiungeva gli stessi luoghi e anche se all’epoca non conoscevo Robert Frost ero solito prendere “il sentiero non preso”.
Riassumendo: da casa di mia zia c’erano almeno altre tre vie per raggiungere la Piazza a fondovalle e poi mi avevano sempre raccomandato quando uscivo solo di stare attento a Ferdinando.
Mi spaventavano quasi di proposito, vedevano nella sua diversità un pericolo per me ma io stavo scoprendo quel mondo e i suoi pericoli.
Ferdinando stava sempre lì, affacciato alla sua finestra con lo sguardo proteso verso altre cose invisibili ai più e con molta tristezze al suo interno.
Ogni volta che mi sorgeva da lontano mi chiamava.
Sempre e solo per poche battute, ero una comparsa nel suo spettacolo.
“ Dove vai?”
“ Alla festa”
“ Vai che quest’anno è bella, più bella dell’anno scorso.”
“ Davvero è più bella ?”
“ Sì, davvero!”
“ E tu non vieni?
“ No”
“ Vieni anche tu!”
“ Io non posso, divertiti anche per me”
E il suo sguardo tornava a prestare attenzione verso tutte quelle altre attenzioni invisibili ai nostri occhi ma che per lui cadevano lentamente come pulviscolo danzante sui palmi accessi delle mani.
Anche lui non ho più visto e ogni volta che ci ripenso, al nostro spettacolo improvvisato, lo vedo lontano, a quella finestra.
Lui era una vedetta per qualcosa di incomprensibile ai più, lui sapeva di esserlo e non poteva allontanarsi da quella finestra per nessun motivo al mondo.
Affacciato verso qualcos’altro per tutta la sua vita.
Ho saputo della sua morte, non so come ma che a un bambino certe cose non si dicono.
E così sentitamente gli ho dedicato tutto il mio teatro.
Tutto il teatro di Edoardo, rifatto a modo suo, affacciato alla sua finestra con le sue visioni, le sue domande e quel senso di comprensione che solo lui arriva ad avere. Spero sempre di essere alla sua altezza.
Questo è parte passata della mia infanzia o parte di essa che nei momenti dei ritorni torna a galla assieme a quella strettoia della gola che devia la mia voce.
Per il resto non c’era nessuna ragazza, qualche studio, giocavo poco e passavo il tempo a interrogarmi.
Una sera si riaffacciò in mezzo a tutto questo il sud attraverso il Napoli.
Senza esserci mai state le mie radici stavano attaccandosi.
Pioveva e non si poteva uscire.
Si giocava un incontro di coppa Italia, la Roma contro non mi ricordo chi.
Ero a casa di mia zia.
Lei aveva prestato servizio a Roma presso casa di persone a me sconosciute. Aveva speso lì la sua gioventù e si era ritirata in pensione, non essendosi mai sposata, al suo paese.
La sua vita giovanile per me rimase sempre un mistero ma a Roma, di sicuro, aveva sviluppato una certa invadente simpatia per i giallorossi.
Così quel giorno si mise a guardare quella partita.
Arrivati alla fine del primo tempo disse:
“ Bella Roma, è grande sai?”
Non avevo ancora ben sviluppato il concetto di grande. Roma poteva essere più grande di camera mia, delle mie scuole Saracco ad Acqui, di Acqui, tutta, di Castelfranci o di Avellino stessa.
Sapevo però che grande non significava per forza bello.
“ Sì zia”
“ Ti piace la Roma? Io sono della Roma. Ogni qualvolta che gioca la Roma penserai a ziuccia tua?”
Era la prima volta che sentivo l’espressione “ io sono de” ed era anche la prima volta che mia zia radicava così bene il futuro in sua frase. Sapeva forse di dire qualcosa che avrebbe lasciato un segno nel tempo. Mi suonava strano, forse a Roma parlavano tutti così?
Pioveva, il cielo era già di suo votato alla tristezza, e mi accorsi solo col tempo che passa che diedi un’ amarezza a mia zia. Avevo, sfortunatamente per lei, già deciso:
“A me piace il Napoli”. Non ero ancora padrone della formula magica “ Sono del”.
Non era quello che lei si aspettava e ai suoi occhi debbo esserle sembrato un nipote ingrato.
Seguì un silenzio che dovette sembrare eterno e poi aggiunsi ingenuamente ma sinceramente quasi a rimediare:
“ Però ogni volta che gioca la Roma ti penserò”
Non disse nulla e mi abbracciò, per poi riprendere a guardare la partita.
E ancora oggi che gioca la Roma penso a lei che non c’è più, a quel giallorosso di tanti anni fa, a mia sorella e a quei due cugini di Roma che venivano tutti prima di me.
Finiva sempre la mia estate quando tornavo dalle vacanze.
Un ultimo e lontano ricordo del terremoto dell’Irpinia fu quello che mi venne raccontato molto dopo, quando ero abbastanza grande (secondo loro) per apprezzare a pieno l’aneddoto.
Come già accennato prima, il terremoto sorprese tutti ma proprio tutti durante la loro normalità.
Nel paese di cui vi dicevo prima in fondo era un giorno come un altro dove il tempo sembrava scorrere immobile come in una vicenda di Hrabal.
Erano tutti impegnati nelle loro piccole cose e nessuno poteva immaginare quanto sarebbero stati sconvolti poi.
Ma vi dirò di un signore di mezza età che era solito lavorare la terra fuori dal paese, alzarsi presto col canto del gallo e faticare quando l’aria del mattino è ancora fresca per poi tornare a casa e impiegarsi in altre faccende.
Non so darvi indicazioni temporali precise perché tutto è ormai perso nella leggenda o nella cronaca.
Questo tizio, tornò a casa e la sua terrà allora tremò.
Era nel bel mezzo del suo bagno rinfrescante.
Il mondo lo scosse e lui si ritrovò lì, perfettamente nudo.
Immaginate una di quelle case coloniche, contadine, di due stanze e con tanto di arredo religioso: crocefissi e immagini di santi.
L’istinto lo prese, senza nemmeno starci a pensare su più di tanto, lo prese e coprì le sue vergogne con un quadro del santo, scappando fuori in un mondo impazzito.
E corre, nudo, tenendo davanti a se l’immagine di un santo e portato da cristiana pietà comincia a gridare, correndo con l’icona sul pube:
– Raccomandatevi a chisto, Raccomandatevi a chisto.
Che letteralmente significa: Raccomandatevi a questo.
La storiella è finita qui.
Nulla di particolare, tra sacro e profano, come si dice, ma mentre stava correndo fuori dalla casa, l’immagine del santo scivolò via dalla cornice, lasciando il poveretto solo con le asticelle della cornice in mano che ben inquadravano le sue nudità.
E mentre, correva fuori , invocando i santi fu visto, impazzito, raccomandarsi al cazzo.
Anche questo fu il terremoto.
..io a nove anni ricordo tutti quegli istanti,l’improvviso impietrirsi dell’aria,la pressione che spingeva i timpani come se si fosse in apnea,tutti i suoni all’improvviso si spensero e dopo pochi secondi un boato cupo sordo e violento fece esplodere tutto come una bomba e in molti restammo sepolti vivi,molti non riemersero mai più, alcuni furono più fortunati..ma niente è stato più lo stesso.