Affogare a Santo Stefano Belbo

Ci ho messo 30 anni e più ad arrivare fin qui.

Eppure sono solo pochi chilometri.

Pochi chilometri, a volte, sono la scelta del destino che avviluppa la sua matassa sulle nostre espressioni serie che, troppe volte, per indefessa iperbole, chiamiamo vita.
Era una domenica qualunque ma è sempre così che diciamo e siamo soliti affermare.

Troppi non vivono ma mentono nel farlo.

Perso tra il solito caffè e la Coca Cola del Bennett, o della Bennett come dicono i nuovi puristi della linguistica applicata al Marketing… ed io che mi sono fatto un mazzo così sul sarmatismo comincio a  rimpiangere un po’ la serietà del mondo antico.
– Si potrebbe andare da qualche parte.

Mentre il sole cuce le menti con l’asfalto si parla senza troppo pensare.

-Si  potrebbe sempre andare da qualche parte.

-Hai voglia di andare a Genova?

-Come no.

-Non ho voglia di guidare fino a lì. Alessandria… Asti… Torino… Milano… che ne dici del Veneto?

-Ma se non avevi voglia di guidare fino a Genova come pensi di raggiungere Verona?

-Già…

Il mondo antico, quello di una volta…affiora.

– E se andassimo ad Alba?

– A far che?
– A prendere un caffè.

La noia spesso fa strani scherzi e due persone annoiate fanno troppo spesso strani discorsi, senza senso, affidandosi l’uno sull’altro.

Ed ecco Alba che ci accoglie dopo che la radio, con tutte le sue più struggenti canzoni d’amore, ci ha martoriato e cotto per bene lungo i cantieri in corso che sono le statali piemontesi, senza nemmeno un cartello a indicare le deviazioni.
In due giriamo a vuoto,  io doppiamente, tra il racconto dei suoi ricordi e quelli di L. che qua ci veniva quando era fidanzata, anni e anni fa, con un militare conosciuto a Rimini, che poi L. è di Lampedusa ed ora è pure mamma.
Strano come certi ricordi risalgano tutti quegli strati solo per affacciarsi di fronte alla minuscola rossa chiesa della Maddalena dove entriamo per poco tempo mentre turisti francesi fotografano ogni centimetro quadrato dell’edificio sacro.

Alba però è una madre temporanea, sapevamo che ci avrebbe adottato per poco.

– Andiamo a bere una birra da qualche parte.

– Dove?

Dopo trenta e passa anni lo dico.

Dopo un concorso letterario vinto e mai ritirato lo dico.

Dopo avere letto e bruciato con i miei occhi le sue lettere e le sue parole lo dico.
– A Santo Stefano.

– Belbo- Aggiunge lui, senza punti di domanda o punteggiatura varia. Il nome così imprime il momento.
Non so mai bene cosa pensino gli altri di me o delle mie mille versioni.

Ultimamente il mio rifarmi alla poesia e al suo effetto sciamanico, almeno in certe cerchie, ha spiazzato non poche persone.

Non m’importa, è una parte di me che viene fuori.

Senza obblighi o distinzioni.

Viene fuori perché è l’armonia del mondo che la chiama.
Oggi poi…
di fronte a queste mille tonalità di verde, pennellate una ad una divinamente su colline dove non è scappato un metro a vigna, il mondo ci insegna la bellezza delle langhe.

Non è una bellezza frivola.

Qui la bellezza costa fatica mai come altrove.

Strade in salita, pendii e declivi.

Tutto lavorato.

Tutto con amore.

Ed è un altro tipo di amore che affiora sempre da questa terra.

E’ tutto un seguirsi di chiese e di cappelle di campagna.
La terra che buca lo spirito, dal basso verso l’alto.

Lavorare stanca…vero come non mai.

Arriviamo, mangiando chilometri, mentre il navigatore satellitare ci ha già perso curve fa.

Qui il mondo antico vuole rispetto per le sue regole.

Appare il cartello e i grandi pannelli che hanno reso la letteratura business, di qui segnalano la collina dei “Mari del sud” e di là altri itinerari pavesiani.

Ci fermiamo in piazza a bere qualcosa.

– Dove?

-Io direi al Bar dello Sport, c’è sempre un bar dello sport e sei sicuro che sono sempre i clienti meno sportivi del mondo.

-Ma no andiamo di là che c’è il dehor.

– Ok.

Seguiamo il dehor.

Ci sediamo.

Così questa è Santo Stefano Belbo ma ho ancora paura a pronunciare il suo nome.

Troppe volte mi hanno chiamato scrittore.

Troppe volte ho sminuito il mio di ruolo nel mondo della letteratura, non in quello dell’editoria, pensando a gente come lui.

Qui, da questa sedia, dietro ad un cubo, il cielo appare tagliato dietro ad una casa colonica.

La fontana del paese non ha la forza o la voglia di inondare il cielo e si nasconde dietro alle troppe macchine di una domenica di fine luglio nelle langhe.

A fianco gente dell’est parla di altre cose, capitata qui per caso, mente i giovani del paese sono uguali un po’ dappertutto ormai e parlano di moto mentre un manifesto ci propone il sorriso artistico di due comici che, sfortuna loro, devo aver già visto da qualche parte.

Mentre ordiniamo due affogati all’amarena tre ragazze a fianco a noi parlano.

Se fossimo in Fandango scapperebbero via con noi.

Via da questo cielo tagliato.
Via dall’acqua piegata dal cielo, troppo lontana com’è dal mare che già Cesare sognava.
Via dalla modernizzazione di un mondo antico e via dallo sguardo triste di quei comici che sembrano già aver dato il meglio sbattendo contro quel muro.

Ma non siamo nell’America, letteraria o cinematografica.

Siamo qui.

A Santo Stefano Belbo.

Paese di Cesare Pavese.

Finalmente l’ho detto.

E non riesco ad alzare lo sguardo e mi condanno nell’affogato all’amarena.