I muri di Kavafis che mi fanno battere il cuore

Da un po’ di tempo non scrivo qui. Non ho tempo, mi dico, che poi questa è la prima bugia quando non sai cosa dire e non ami più. Non amo più la mia scrittura ed è un male, perché se non la amo io, chi lo può fare? Mi sono perso dietro due o tre mila cosette, nessuna di valore e dietro una persona che vale tanto quanto le cosette, penso ammirando l’ipocrisia del mondo che si staglia sulle piste degli aeroporti.  Non si sente nulla qui e mi domando se questa è vita, forse c’è vita su Marte ma non qui. Decido così di provarmi i battiti del cuore per vedere se senza scrittura e QUI, batte ancora, batte, siamo sui 78, così dice il gingillo cinese che porto al polso. Ho con me Linus, comprato a Fregene, in pratica di chilometri ne ha fatti molti con me e lo sfoglio mentre il mio vicino di posto è un giapponese che sembra essere interessato solo a tirare con l’arco nel suo Iphone. Sarà divertente penso. Poi decido che ho dato troppo, troppo tempo, troppo me a questo nulla e come primo passo per tornare alle mie cose, leggo i Peanuts, mio padre è barbiere dice Charlie Brown e quasi mi commuovo, un giorno con Schulz e Celentano ci sarà un partito di figli famosi di barbieri…. L’occhio poi mi cade sulla lettere di Petros Markaris a Theo Angeloupolos, regista scomparso. Ricordi i muri di Kavafis?

Questo è il titolo della missiva, quanto mi piace la parola missiva, scivola via che è un piacere, rende l’idea delle lettere che scorrono fulminee verso qualcosa. Le parole sono pietre.

Così lo scrittore greco scrive al suo amico regista, connazionale, parlando della sua preveggenza, dei migranti, dello sguardo di Ulisse, che abbiamo perso e che mai più forse ritroveremo perché in questa UE contano il potere e i soldi, ammantati dall’ipocrisia.

 

“Amico mio, mi manchi molto. D’altro canto mi consolo perché non sei costretto a vivere in questi tempi miserabili. So quanto soffriresti”. Questo è l’elegiaco commento.

Già, viviamo in tempi miserabili, il mio vicino scocca un’altra freccia e penso che forse, questa, a parte la mia condizione di uomo perso è l’unica cosa in comune con Ulisse. 118, segnala il mio gingillo cinese, in fondo il mio cuore sa battere ancora.

 

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