Silenzio e freddo. L’ambiente all’interno è poco differente rispetto a quello esterno. Dentro manca la neve e le persone. Mi guardo intorno, fin dove la debole illuminazione lo permette. Se non sono l’unica persona all’interno, poco ci manca. C’è solo una vecchia in prima fila intenta a pregare. Lì seduta, piegata, non sembra essere troppo diversa da quelle signore del sud che hanno occupato la mia infanzia. Penso alle processione, agli abiti neri e al sole che accende le pietre. Cose che so, non torneranno più, in nessuna parta del mondo. Eppure ci avviciniamo tutti in maniera simile all’imponderabile. Penso a tutto quello che mi è successo ma a farmi paura è quello che non è successo. Sollevo lo sguardo a cercare quello che non trovo e noto gli affreschi. Ricordo solo ora una breve lezione sull’arte locale, lezione privata tenuta da Paivii, sul ritorno in pullman da Helsinki. Eravamo finiti al Kiasma, il museo d’arte moderna, e l’avevo fatta ridere a crepapelle con i miei commenti sull’arte moderna. Ecco sì, Paivii è la prima persona, non della mia famiglia che ha pianto al nostro salutarci. Sapeva che non ci saremmo rivisti più. Conosceva solo una parola in italiano. Fiore. E amava ripetermela. Fiore in bocca sua diventava altro. Era la donna con il fiore in bocca, lontanissima dalla contestualizzazione pirandelliana. Il fiore in lei non era un male ma era il bene, se non un bene assoluto, un bene temporaneo, destinato a finire presto ma che comunque avevamo abbracciato conoscendo la sua presta fine. Così dopo aver visto in un quadro un impiegato con la testa di cinghiale mi disse che a Tampere, Simberg mi sarebbe piaciuto. Simberg era un guascone irrivente dall’animo profondo e dalla visione originale. Questo avevo capito prima di allora, prima di essere di fronte, lontano da Paivii, alla sua opera.