Bruno e l’illegalità di esistere (di Fabio Izzo)
In un creato a dimensione divina Bruno aveva smesso di resistere.
Una solar in più lo aveva allontanato dall’esistenza.
Bruno aveva perso il suo Messia, l’aveva nascosto in qualche pozzanghera il giorno dopo piovuto, l’aveva immerso in un campo di grano appena trebbiato, lo aveva inzuppato in una tazza marrone di caffè rendendolo attivo e ipnotico, lo aveva mimetizzato nell’odore del pane caldo che inonda l’aria delle mattine estive.
Perché Bruno, come solo lui sapeva fare, amava la Stagione, tanto che l’estate l’aveva definita sua, tutta.
Il Messia di Bruno, in quella che per lui era la stagione prima, aveva avuto vita propria.
Un dono inaspettato in tempi che non aspettavano di sicuro la vita.
Giorni che ormai sembrano essere dimenticabili, in questo tempo non prezioso che ha asfaltato violentemente i pensieri felici; altri messia si erano affacciati ,con altre identità, predicando il disprezzo per l’originale, se non proprio che il disprezzo per Bruno stesso, ultimo rappresentante di una razza non resistente.
Tutto ciò avveniva seguendo il ciclo del sole, da quando era nato, da quando quel celato mistero della nascita l’aveva inaspettatamente scaraventato sulla parte lucida del mondo.
Solo che a lui, non l’avevano avvertito; nessuno lo considerava e tanto meno nessuno l’avrebbe avvertito nei suoi sorrisi spezzati e così il suo primo sguardo sul mondo cadde pieno di meraviglia.
Meraviglia tutta e ultima.
Meraviglia coraggiosa che si frantuma contro la vigliaccheria del mondo. Coraggiosi risultavano essere i suoi occhi ad aprirsi ostinatamente conoscendo solo il buio.
La prima cosa che vide fu l’insieme di tutte quelle variazioni della luce che poi avrebbe imparato a chiamare colori, il nero. Meraviglia era quella linea che divideva il chiaro dallo scuro, meraviglia erano quei cavalieri dorati che bucavano l’oscurità con il loro coraggio di risplendere nella notte.
Aveva dimenticato i pesanti Golem, le lettere sacre, le vendette dall’alfa al beta, Bruno al suo Messia aveva prestato, senza chiedere nulla in cambio in un gesto di amore assoluto, il suo sguardo sul mondo.
Il Messia doveva così vedere, sarebbe stato costretto dunque a vedere con gli occhi di Bruno ma in questo momento era un Messia distratto che non stava guardando.
Elaborava dati, concetti, pergamenava tutto.
Il creato intero era steso sulla sua pergamena.
Aveva abbandonato Bruno, era fuoriuscito dalle sue mani e se ne era andato per una parusia fine a se stessa.
Abbandonato Bruno, si guardava le mani e le chiudeva, le apriva, le stringeva, le faceva mulinare nel vuoto come se le sue mani avessero ancora qualcosa del Messia in loro e come se quel qualcosa fosse destinato al mondo e Bruno, allora,voleva distillare ogni goccia di tutto da quelle sue mani, scrutandole, osservandole e rimuginandoci sopra.
Sono mani: hanno cinque dita, cinque strade verso dio più o meno lunghe, protese verso la mortalità di chiunque.
Sono mani: pelose, con i palmi glabri, sacri agli indù e al sacro burro.
Sono mani: possono aprirsi, possono aprire la strada verso dio e possono chiudersi, chiudersi infinite volte su stesse in spirali e forme elicoidali.
Possono dischiudersi e perdere qualsiasi sentiero per l’immortalità.
Possono stringere, possono stringere altre mani, altri amori, possono stringersi e serrarsi su promesse, su parole di odio e di morte.
Sono mani che possono ferire, come procrastinare l’immortalità.
Sono anche mani che possono offendere.
Ma Bruno sa, sa che le sue mani, trattengono e rilasciano parole di getto, che inaspettatamente immortalano lamine di tempo bianche.
Sa che sono mani che creano e sospetta che derivi proprio da queste mani la sua illegalità a vivere. Le guarda, le studia, non le sa leggere ma le sa portare.
Le chiude, stringe i palmi e li nasconde serrati nelle tasche profonde di oscurità, per ogni anima immortale o maledetta a essere tale.
È buffo come un ponte si stenda sempre di fronte ai destini umani:
“Sopra un ponte ci stanno i demoni ad aspettarti, sotto il ponte i demoni ti hanno già preso, il resto è solo acqua che scorre incurante della tua miseria umana. Salve, sono Bruno Schulz!”stava parlando riflettendosi a secco in un tazza stagnante di pensieri e caffè:
“E un giorno morii, a caso e nemmeno tanto a stento.i ncredibile la storia della mia trasformazione. Io piccolo matto scrittore provinciale con la sola unica e massima ambizione di arrivare a intravedere i tessuti arcani del creato. Non sono mai stato padre anche se ho creduto all’amore.
Ho creduto all’amore sbagliato dove io, per paura, davo tutto me stesso.
E devo dire che si presero tutto, sempre.
E rimasi con le piccole piume di un pavone a sventolare sugli spiragli di questa realtà. Ma la storia o almeno la mia storia, piccola macchia di caffè in qualche sperduto luogo d’atlante universale, quella stessa storia che è arrivata alla mia proclamazione di morto è ben più lungo di un caffè annacquato. Ricordo che nacqui, avvolto in mitologie pre-esistenti già a mio padre, così uscii, io frutto di qualcosa già consacrato ad altro.
Quelle lenzuola furono le mie nubi, gli spettri del mio disagio.
Ritrovarmi nuovamente avvolto in cose vecchie. Ne tiravo i lembi già da piccolo perché a me, troppo stretti. La mia prima parola forse fu mamma, che in seguito riguardo a quella mitologia di cui accennavo prima, dovetti trasformare in madre. Le parole hanno un loro rigido significato.
È la mente umana che le rende elastiche assottigliandone la forma per maneggiarle al meglio. Siamo capaci di plagiare la volontà delle parole in atti di diversi significati. E così io lo imparai presto che la gente non dice quello che vuole dire ma solamente quello che riesce a dire.
Come me, come voi, in questa bocca inzuffata di cozze in sorrisi smorzati per me.
Poi d’improvviso ricordo.
Sono solo un povero piccolo pazzo scrittore provinciale che troppe volte ha sfidato gli dei , solo per essere ignorato. A coloro che gli dei temono recano loro in dono la pazzia. Poi scoprirono il caffè e lo diedero in dono agli artisti, reietti tra i pazzi.
Gente che in una tazza, in un fondo, non vede un futuro affondato ma un presente compresso privo di comprensione..”
Nel 1973 il regista polacco Wojciech Has ha realizzato un lungometraggio da “Il Sanatorio all’insegna della Clessidra”, The Hour-Glass Sanatorium (Polish: Sanatorium pod klepsydrą) recentemente ristampato in Dvd per il mercato inglese.