elämä

 

Silenzio e freddo. L’ambiente all’interno è poco differente rispetto a quello esterno. Dentro manca la neve e le persone. Mi guardo intorno, fin dove la debole illuminazione lo permette. Se non sono l’unica persona all’interno, poco ci manca. C’è solo una vecchia in prima fila intenta a pregare. Lì seduta, piegata, non sembra essere troppo diversa da quelle signore del sud che hanno occupato la mia infanzia. Penso alle processione, agli abiti neri e al sole che accende le pietre. Cose che so, non torneranno più, in nessuna parta del mondo. Eppure ci avviciniamo tutti in maniera simile all’imponderabile. Penso a tutto quello che mi è successo ma a farmi paura è quello che non è successo. Sollevo lo sguardo a cercare quello che non trovo e noto gli affreschi. Ricordo solo ora una breve lezione sull’arte locale, lezione privata tenuta da Paivii, sul ritorno in pullman da Helsinki. Eravamo finiti al Kiasma, il museo d’arte moderna, e l’avevo fatta ridere a crepapelle con i miei commenti sull’arte moderna. Ecco sì, Paivii è la prima persona, non della mia famiglia che ha pianto al nostro salutarci. Sapeva che non ci saremmo rivisti più. Conosceva solo una parola in italiano. Fiore. E amava ripetermela. Fiore in bocca sua diventava altro. Era la donna con il fiore in bocca, lontanissima dalla contestualizzazione pirandelliana. Il fiore in lei non era un male ma era il bene, se non un bene assoluto, un bene temporaneo, destinato a finire presto ma che comunque avevamo abbracciato conoscendo la sua presta fine. Così dopo aver visto in un quadro un impiegato con la testa di cinghiale mi disse che a Tampere, Simberg mi sarebbe piaciuto. Simberg era un guascone irrivente dall’animo profondo e dalla visione originale. Questo avevo capito prima di allora, prima di essere di fronte, lontano da Paivii, alla sua opera.

Dio ci odia tutti

Niente paura, il titolo è solo la traduzione di God Hates Us All, il best seller di Hank Moody. Hank, per chi non lo sapesse, è lo scrittore fittizio, protagonista della serie tv Showtime, Californication, la cui visione mi sta impegnando in questo periodo sconclusionato della mia esistenza. Sono alla sesta stagione, me ne manca una e poi finirò a chiedermi come sarà la mia vita senza Hank.

Non ho amato True Detective, banalità confezionata alla perfezione, e Breaking Bad mi ha entusiasmato a fasi alterne, de gustibus, ma Californication era, è, e resterà tutta un’altra storia. Forse è l’unica serie per scrittori realmente sulla piazza. Ok, non ho la Porsche, non ho i soldi, non ho Karen, non ho Becca e non ho nemmeno uno schifo di agente come Runkle, ma ho le sue emozioni e i suoi picchi di vita. Ho una storia, ho le situazioni, ho i dialoghi e dovrò solo avere il coraggio di dare al mondo qualcosa di infinitamente bello quanto triste. Questo post, a dire il vero, è più utile a me, che a voi. Lo scrivo per ricordarmi, nel tempo, quel che sto facendo mentre il mio telefono continua a ricevere messaggi da TraffResiduo 404 aspirando a una ricarica. Cerco di concentrarmi su quello che, sulla carta, dovrebbe essere il mio prossimo libro.

Una storia d’amore o meglio, la mia storia d’amore. Forse è davvero arrivato il momento di misurarmici, sapendo già come andrà a finire. Forse è davvero arrivato il momento di osare quello che mai avevo osato finora. Si tratta di aprire porte su porte ormai chiuse a chiave a doppia mandata. Ma tutti sanno essere cinici, un’altra cosa è osare, direbbe un personaggio chiamato Faith

Don’t you owe me an hug.

Respiro. So cosa vuol dire abbraccio. Mi manca il verbo prima. Lei nota lo sguardo perso nel vuoto a cercare verbi regolari e irregolari.

What?

Cosa…ehmm non ho capito.

Don’t you think you owe me an hug.

Un abbraccio.

Certo.

E l’abbraccio. Questo è il nostro primo abbraccio. La sciarpa di mia madre tocca il suo maglione grigio a collo alto. Tanti mondi si incontrano e si scambiano sensazioni per un tempo limitato, limitatissimo, tanto che l’imbarazzo ci sommerge.

Che stai facendo.

Leggevo.

Leggi sempre.

Già, vero.

Hai lezione?

Sì, tra un quarto d’ora.

Hai tempo per un caffè

Sì, andiamo all’Attila

Attila è la caffetteria al piano di sotto, che fortunatamente ha prezzi da universitari.

Prendiamo due caffè, non offro.

Non posso.

Non ho i soldi e non ho la confidenza necessaria, potrei offenderla, potrebbe voler dire qualcosa che non so, me ne sto sulle mie, arroccato nei miei dubbi.

Com’è andata a Stoccolma.

Bene, bella città

Sì, noi ci siamo già stati.

Avevano partecipato al primo giro di visite, io invece, come sempre, mi ero perso quello e molto altro, grazie alla perfetta burocrazia elefantiaca italiana che fino all’ultimo è riuscita a non fornirmi tutte le carte utili, ma qui basterà solo qualche mail per risolvere tutto. Mentre bevo il caffè di tipo americano lei mi chiede:

– Sei stato con gli italiani?

Gli italiani. Facciamo sempre gruppo e siamo invisi agli occhi degli altri. La nostra fama, nel bene e nel male ci supera. Noto sempre del disprezzo in queste circostanze, anche nella sua domanda. Sicuramente accomuna la mia militanza nel gruppetto composto da viterbesi, genovesi, romani e beneventani, a una caccia alla donna. Se sono in mezzo a loro devo comportarmi come loro, è quello che sta pensando.

– Sì, sono stato con loro.
– E che avete fatto?
– Girato, fatto foto
– Quelle poi le voglio vedere.
– Certo, appena le sviluppo.

Certo, appena ho i soldi per svilupparle, vorrei dirle, ma svicolo tutto a mancina e mi getto su:

-Ho anche parlato svedese.
– Sì?

-Sì

In realtà ho chiesto informazioni per raggiungere la casa museo di Strindberg, ho comprato una videocasetta di Lucas Moodinson, Tylsammans, che prima o poi guarderò, e ho comprato qualche Kiosk en Corv. Sono sopravvissuto e la popolazione svedese è stata così gentile da non correggermi in caso di errore.

– Devo andare a lezione.

– Ah ok, io non ne ho, ci vediamo.

-Certo

-Buona lezione.

-Mi sei mancato.

-Grazie.

Si alza, prende la sua giacca e se ne va. Non si volterà. Non ora. Non oggi. Non stasera. Il suo cammino è ancora distante dal mio. Mi sei mancato. Un martello di sillabe straniere comincia a battermi in testa. La mia anima è l’incudine, scossa a ogni schianto. La cadenza è irregolare. Scuoto la testa per svegliarmi. Il caffè è finito ma ho ancora qualcosa da fare. Salgo dalla caffetteria al secondo piano. Cerco Ste che come tutti gli italiani è in sala computer a “ceccare” email e a passare il tempo. Internet è una novità per noi. Internet gratuito è un dramma nazionale. La nostra produttività è calata di colpo. Perdiamo tempo, saltiamo lezioni e non studiamo, ipnotizzati da queste sirene digitali. Il grande Nord è già un crocevia di razze e di destini. Il dj arriva dall’Africa, la ragazza beccata da M… vive ad Helsinki ma è asiatica, di qualche paese che io accomuno solo a Risiko nella mia conoscenza geografica, ma no, non è un la Kamchatka

Ste è lì. Che scarica e stampa testi. La formula tutto gratis a noi che arriviamo da un paese di dispendi è sacrifici giovanili è sconvolgente.

Vestito di nero è lì davanti allo schermo.

– Che fai?

– Surf

I giochi di parole si sprecano. Lui è un fan dei Beach Boys e a dire il vero è finito in Finlandia per colpa dei Beach Boys, ma questa è un’altra storia; quando invece può fare giochi di parole non perde l’occasione e così navigare, surfare, surf, surfing, surfing safari, diventano codici amichevoli.

– Hai un minuto?

Chiedere un minuto a un ritardatario come lui è come chiedergli un pezzo della sua vita.

– Quanto è importante?

– Non è importante ma lo è, insomma

– Lei?

– Lei

– Ok, dimmi

– Mi ha detto una frase che non ho capito

– Donne e chi sei tu per volerle capire?

– Ma no, non intendevo quello, in inglese.

– Inglese, chi sei tu per volerli capire?

– Nessuno, ma se magari mi dai una mano

– Che ti ha detto..

– Qualcosa su un abbraccio hug

– E fin qui, cosa c’è di strano?

– Aspetta, mi ha detto Don’t you owe me an hug?

– Ah, buono

– E che vuol dire?

– L’hai abbracciata?

-Sì.

– Bravo

– Sì, ma ok

– Aspetta

Lui è molto più prosaico di me, da peso al suo tempo e non alle parole degli altri, o almeno così sembra mentre ticchetta sulla tastiera cinque lettere e uno spazio

To owe

– Leggi qua

Leggo

– Essere in debito, dovere qualcosa a qualcuno

Don’u owe me an hug quindi voleva dire Non mi devi un abbraccio?

 

californication-7x12

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recuperando Racconti: Ferdinando Cuor di Libro

Questo è un mio vecchio racconto, già comparso da qualche parte, si intitola Ferdinando Cuor di Libro

Nonostante tutto si trovava ancora un bell’uomo. Riflettendo la sua immagine nello specchio come ogni mattina da quindici a questa parte. Allontanati gli anni delle scuole, Ferdinando, aveva trovato il piacere di uno specchio al mattino e nonostante tutto si trovava ancora gradevole d’aspetto.
Provava ancora soddisfazione a rinverdire parte de “il mito di Narciso” in un ambiente poco consono, profano, ma rituale come il suo bagno.
Ferdinando provava ogni volta a decodificare i miti, i riti, le abitudini e le consuetudini che ormai affollavano il piano dell’esistenza senza essere capite dall’occhio umano della donna qualunque.

L’uomo qualunque è sempre stato rapito da altri sguardi e non navigava più da secoli, se mai nel suo dna avesse ereditato materiale marinaro, ma si sentiva ancora come Ulisse. Odissee su odissee. A che pro farsi la barba se lui ricordava benissimo che nello sceneggiato televisivo della televisione nazionale, Ulisse stesso, l’eroe moderno più antico che si possa trovare nella cultura pop, se Odisseo stesso, Ulisse per i più e Nessuno per i meno, aveva un corollario di barba al suo viso? Ferdinando non si rase quel viso seguendo le indicazioni mitologiche di una televisione distratta o di un regista che era meglio documentato di lui e dopo un azione non fatta, scese nel bar sotto casa. Privo di Telemaco e di una Penelope a cui dar da provvedere una reggia in sua assenza, aveva però conosciuto molti Proci ma Ferdinando non era solito fermarsi a domandare dei gusti sessuali delle persone, nonostante fosse ancora un bell’uomo.

Ogni casa ha sotto un bar, strana combinazione. Domus e tempio, Ferdinando si rammaricava ogni giorno per non aver studiato greco e latino. Inglobato dalle sue scelte precedenti che lo avevano portato a studiare circuiti elettrici e linguaggi macchina che si estinguevano nella società informatica più velocemente del Manx (lingua morta), aveva dedicato la sua gioventù a perdere tempo. Culture lontane nel tempo e nello spazio lo avevano per troppo tempo esiliato nel mondo moderno.
In maturità aveva scoperto uno scrittore perseguitato dalla scarsità di memoria di critica e pubblico e n’aveva ingoiata ogni singola parola, letteralmente. Per sentirlo suo, per avere il potere di quelle parole mangiò tutte le pagine di quel libro capolavoro condito con olio e sale. Cultura sì ma stupido no. Come alcune tribù africane, che lui aveva visto solo in Porky’s quando Pipino Morris usa a scopo educativo il National Geographic, aveva praticato il suo rituale cannibalesco con la prosa magica di un maestro della letteratura. Aveva da sempre voluto scrivere Ferdinando per scappare dalla normalità attiva della vita, aveva capito fin troppo presto che solo l’uso magico della parola avrebbe potuto spostarlo al livello gerarchico della comprensione.
C’è chi è nato per l’azione e chi per la comprensione, questo lo comprendeva benissimo.

Non era però sicuro quale fosse il suo posto o aveva compreso così bene tutto che non doveva più fare nulla o aveva fatto tutto che non c’era nulla più ormai da comprendere. Bibbia? Letta, ma chissà in quale traduzione si domandava. Vangeli? Letti, ma chissà in quale traduzione si poneva domanda. La Divina Commedia? Letta, ma chissà in quale edizione si inquietava. I Promessi Sposi? Letti, ma Manzoni non lo aveva mai annoverato tra i suoi lettori e questo lasciava un retrogusto amaro sulle pagine di quel libro Certo, li aveva letti e mangiati tutti per impossessarsi del verbo. In principio fu il verbo, dopo l’azione e venne dunque la digestione. Gadda, Pirandello e Sciascia avevano quel gusto classico, un po’ di salse francesi con Dumas, Balzac e Sartre. Fish and chips incartati da Shakespeare, zuppe e sapori Yiddish per Singer e così via di menù in un menù per ogni giorno che alimentava la sua conoscenza. Trovava indigesto Eco e lo aveva eliminato dalla sua dieta. Ogni scrittore era figlio dei sapori della sua terra e Ferdinando per impadronirsene univa gli aromi alle prose.

Poteva nella suo appetito discernere libri su libri. Li leggeva, li assoggettava e poi a seconda o meno che gli piacessero, in quanto il suo era un palato fino, decideva se deglutirli conditi o meno. Da buongustaio qual’era si prodigava anche in qualche manicaretto, odi, sonetti che servivano a stuzzicargli l’appetito, subito da lui composti e privati al resto della riluttante umanità. Il capolavoro assoluto aveva deciso che sarebbe sceso nel suo stomaco da solo privo di qualsiasi condimento, ma non lo aveva ancora trovato.

cuore

John Fante: e il Markettaro ride

John Fante è un autore che ho amato molto, lo cito sia in Balla Juary e il protagonista de “Il Nucleo” si chiamava, tanto per intenderci Dante Fante.

Premesso poi che sono convinto che Fante, in Italia, venderebbe anche con il mio naso in copertina, volevo spendere due parole e dedicare un post al caso della foto sbagliata. Infatti l’ultimo volume einaudiano, cioè uscito ieri, dedicato all’epistolario (1932-1981) dell’autore italo- americano, invece di mostrare il papà di Arturo Bandini mette in bella mostra l’immagine di Stephen Spender, poeta e saggista inglese.

Hmm che dire? Il materiale ripubblicato è facilmente reperibile nel mercato dell’usato, certo c’è una nuova prefazione, forse è stato anche ritradotto (ma non è forse meglio leggerlo in originale se si può?), tanto che nello screenshot lo trovate messo in vendita a solo 9 euro, pubblicato da Fazi anni fa (correva l’anno 1999)… Quel che vien da pensare è il marketing: il nemico più subdolo del lettore… si crea a tavolino l’errore da spargere ai quattro venti sui social network e così la prima tiratura, che ricordiamo essere sempre einaudiana, quindi non parliamo di sicuro di 100 copie, finisce in poco tempo perché l’avventato avventore alla fine pensa di aver comprato un pezzo da collezione, come il Gronchi Rosa (letto su twitter) accammallandosi di fatto un libro da 24 euro, non di certo indispensabile a queste condizioni.

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La poca comprensione del compressore napoletano

Nella vicenda di Napoli c’è qualcosa che non quadra. Già non quadra perché se un ragazzino di 14 viene insultato e ridotto in pericolo di vita solo per essere “rotondo”, grasso, sovrappeso, con le ossa grosse o obeso (come meglio preferite), dovremmo tutti cominciare ad interrogarci.

La nostra società non è nemmeno più basata sull’immagine, ma è trascesa oltre e si fonda, o per meglio dire “affonda”, sull’apparenza.

Viviamo in epoche veloci dove un’immagine può essere vista simultaneamente in tutto il mondo, quindi il fattore tempo è ormai marginale per quel che riguarda la comprensione visiva e, ahimè, non.

Non si ha tempo per concedere una seconda possibilità, figuriamoci se qualcuno vuol concedervi un secondo sguardo. A tal proposito trovo emblematico, in tal senso, l’esposizione odierna, da parte di un quotidiano nazionale che, dovendo proporre ai suoi lettori una notizia americana di morte assistita, in prima pagina ha deciso di ricorrere all’ utilizzo della foto meglio riuscita della protagonista corredando l’articolo interno con un’immagine meno perfetta e decisamente più reale, nascondendo così i chili in più della donna.

Insegnano forse questo ai giornalisti? Non so. Sta di fatto che il grasso, oggi giorno, è bandito dai media ed è una battaglia culturale persa. Culturale poi? Se parliamo di salute è tutto un altro discorso ma la rappresentazione di un modello distante dalla realtà può essere questo definito cultura? Una società basata sull’apparenza non può che produrre mostri dentro. Chiudo il mio post con una frase
della scrittrice Amélie Nothomb, proposta in Italia da Voland: “Gli obesi mi affascinano: si scontrano con il diktat della società di dover essere magri”.

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