Balla Juary, capitolo 1, edizioni Il Foglio, 2009

Siamo tutti avvolti da questo insano grado inclassificabile di desiderio indecifrabile. Desideriamo in ogni modo le stesse sparute cose e ci avvolgiamo in un unico grande mantello di scuse ipocrite dai tratti poco originali.

Antiche parole hanno cambiato frequenza per venire nuovamente rimpiazzate da suoni ad alto impatto scenico.

Così in questo modo pieno di effetti speciali tipo “in una galassia lontana lontana” mi parla l’esaminatore dicendo cose note ma esprimendosi in mondo elitario per sentirsi parte di una casta di occupati privilegiati e per prendere subito le di-stanze da me e dalla mia posizione svantaggiata di peso della società e lo fa semplicemente, relegandomi coi suoi suoni e col suo lessico nelle classi degli odierni pariah non indù.

Immagino di sentirmi proprio come una dolce piccola e bianca pecorella, come quelle dei fumetti, rivestita di lana vergine al momento delicato della tosatura. Stavolta vogliono il mio vello, la mia pelle, per ricavarci un maglione aziendale. Vogliono tosarmi tra un brand e un merchandiser, usando dei ruvidi forbicioni arrugginiti per tosare la mia identità.

Rischio elevato di infezione mentale…when I was younger so much younger than today…please please help me.

Poi ad un tratto il selezionatore dai paroloni forti si ferma perché c’è un nuovo ingresso in scena: entra la segretaria che precedentemente mi aveva fatto scomodamente accomodare nell’ufficio su questa sedia in simil- legno frutto simil-geniale di un designer brillantissimo laureatosi a pieni voti all’università dell’alcolismo serale e feriale. Segretaria, scoprirò poi, da 950 euro al mese. Ragazza da scalata sociale, carina in quella mise.

 

Comunque sia, in questa fase della poco avvincente vicenda, la ragazza parlando ha un suo modo garbato di restare nel ruo-lo, recitando senza aver mai fatto teatro, ve lo dico io che di teatro ne ho fatto anche troppo.

 

Qualcuno ancora ricorda la mia interpretazione, apparsa al-l’una di notte sulla rete nazionale, quando recitavo in un’opera di Beckett e sempre quel qualcuno mi ferma per strada chieden-domi se quel tipo, quel Godot, sia poi arrivato o se mi ha la-sciato solo per tutto il tempo; si vede che si sono addormentati prima.

Kantor no, della mia interpretazione di Kantor nessuno ri-corda nulla, a questo mondo in fondo è come se io non avessi mai fatto Kantor.

“La signora che vi ha accompagnato dice che è tardi e che dovete andare”.

Avessi indossato la cravatta ora come minimo starei cercando di manipolarne il nodo per renderlo scorsoio e invece non portando mai tale accessorio costringo le mie mani a una forza-ta immobilità di veloce imbarazzo. Il mio sguardo da pecora indifesa e mal tosata è rivolto mansuetamente al gran tosatore che appare piuttosto sorpreso:

“Chi è la signora, sua madre?”

Per la prima volta in questo incontro quello va a formulare un periodo con vocaboli calmi, sicuri e di facile comprensione. Suvvia anche un bambino conosce e sa pronunciare la parola mamma ma tornare a parlare un linguaggio comprensibile non serve a rallegrarmi, anzi mi conferma che quello, quel cacciatore di teste, ce l’ha messa proprio su con me. Cerco di arrivare ad una plausibile risposta tra verità e bugie da applausi, tra le mie verità assolute e le sue bugie di sempre, tra le sue bugie consumate e le mie verità illibate; ma le mie mani sono ancora ferme, sembrano ferme e invece sono rapidissime, invisibili, come nei fumetti che colleziono, quelli di Flash, l’uomo più veloce sulla faccia della terra, mentre allacciano i nodi non scorsoi di una storia incredibile a scorrere.

“No, non è mia madre ed effettivamente è tardi, penso che il nostro colloquio sia stato esauriente, devo andare… sicuramente so già che vi farete vivi voi come da prevedibile cliché”.

Touchè, chapeau, francesismi vari per sottolineare la mia signorile uscita da questa scena.

“Ma…ma…mah” cambiano i suoi suoni senza riuscire mai ad assumere alcun significato e stavolta l’imbarazzo è tutto del-l’esaminatore che, spiazzato da questa mia finta alla Juary, resta lì fermo e immobile a giochicchiare con la sua tremolante cravatta mentre io uscendo comincio una danza proprio vicino alla bandierina del calcio d’angolo, verso una via di fuga.

Il nervosismo è l’unico protagonista della scena.

Festeggio in questo modo la fuga improvvisata con immagini, precipitate in questo presente, prese direttamente della mia infanzia, quando mio nonno mi portava allo stadio a vedere le grandi imprese di una piccola squadra dai giocatori improbabili nella mie età del probabilismo assoluto, tra una venuta di Babbo Natale e la Coppa Uefa all’Avellino.

Fuori dall’ufficio, nell’anticamera, sul divanetto, siede composta in un atteggiamento innaturale, la signora madre che mi ha accompagnato.

“Hai finito? Ti hanno assunto?”

“Andiamo che è tardi” sollevandole il braccio per aiutarla ad alzarsi e sollecitandone l’uscita.

“Buongiorno, buongiorno” saluto veloce e quasi trascino la mia accompagnatrice fino all’ascensore mentre la segretaria ci guarda con un’aria mista tra il divertito e lo sgomento. Le porte si chiudono e la mia tensione scende assieme ai piani che scorrono giù. Sono tutto sudato, esausto, stremato e non ho nemmeno la forza di aggiungere qualcosa alla congiunzione.

“Com’è andata?” continua a chiedermi in quello spazio forzato che è l’ascensore.

“Non lo so mamma, non lo so. Davvero non posso saperlo”.

“Ai miei tempi era tutto più facile” rintuzza lei.

La signora in effetti, ora posso confessare, è mia madre. Già, mi sono fatto accompagnare al colloquio dalla mamma! Arrivo a concludere nel mio complicato pensiero attuale che questa ditta, una volta scoperto ciò, mi avrà depennato perfino dalla sua opprimente ed invadente spam aziendale. Poco male, almeno c’è qualcosa di positivo in questa faccenda, la mia mail potrà gioirne. Ma lo sviluppo troppo semplice delle cose percepite in questo modo nasconde le troppe verità in gioco su questo mio campo di periferia sociale.

“A che ora è il treno?” mi riporta mia madre alla realtà, solo come una madre sa fare senza tenerti per mano.

“14 e 30” sorrido, in fondo la mamma è sempre la mamma.

“Bravo, hai studiato! Mi ricordo di quando ti aiutavo a fare i compiti…a studiare le poesie a memoria”.

“Che ore sono?” Chiedo interrompendo il melenso viaggio dei ricordi materni e senza aspettare mi rispondo da me, sono le 13 circa da quel poco sole che posso vedere mentre a fatica si affaccia tra questi palazzoni.

Soprapensiero mi pronuncio ad alta voce “E quanto ci mettiamo ad arrivare in stazione?”.

Questo entrambi non lo possiamo sapere. Milano, la città bevuta, a noi appare completamente sconosciuta.

Quel poco che ne so io arriva da poche pagine di uno Scerbanenco mai letto per intero e quel che ne sa mia madre arriva invece senza scremature da un film di Totò e Peppino. Qui sia-mo solo di passaggio. Una tappa forzata del nostro giro d’Italia. La prima in effetti.

Avevo organizzato il viaggio inserendo il mio colloquio, con tutte le raccomandazioni del caso che a nulla sono valse.

Stai lì, buona. Non fare domande.

Non far capire che sei mia madre. Appena ho finito andiamo via…

E invece, andiamo in stazione a prendere il treno con un’ora di anticipo e con un altro colloquio fallito, quando i soldi di questo lavoro mi avrebbero fatto davvero comodo.

Mangiamo qualcosa, due di quei panini tipici delle stazioni ferroviari che sembrano sempre troppo colorati e battezzati impropriamente con nomi altisonanti di celebri viaggiatori; i biglietti erano già stati fatti premurosamente da tempo e ora giacciono in tasca mentre ci accomodiamo nel nostro desolato, assolato e prenotato scompartimento.

I raggi di sole illuminano e calano sulla polvere che lenta-mente scende a zig zag come quando un riflettore illumina la scene sui più grandi teatri del mondo che io non ho mai calcato. Un infortunio al ginocchio mi ha impedito di farlo, come pure di giocare in serie A ma questa è la solita scusa da perdente che in Italia usano tutti ma proprio tutti.

Mi squilla il cellulare, sul display la folgore: il numero è quello della ditta dove si è svolto il colloquio con tanto di mamma qualche ora fa… dentro me non può nascermi spontanea che una domanda:

– Che sarà successo?

Pensieri da perseguitato sociale:

“Può essere bastata la mia figura di merda per invogliarli a deridermi e a infierire ulteriormente per telefono? Quello stronzo cacciatore di teste…lui e tutti i suoi paroloni inutili…”

Lo lascio squillare a lungo perché risolvere i misteri non è mai stato il mio forte. Può sembrare una cosa in apparenza senza senso ma d’altronde è come quella volta che rimasi per ore davanti alla neve ma questa è una storia felice della mia infanzia lontana mentre ora sono invece in una sconclusionata età adulta e decido di rispondere al telefono. Dall’altra parte di questa improvvisata conversazione telefo-nica riconosco la voce, anche se più dolce, addolcita forse dal sapere di avere a che fare con un essere inferiore del mio infimo rango. È la segretaria da novecentocinquanta euro mensili (non so se lordi o netti).

Non ha più il tono professionale della prima volta, quella della convocazione al colloquio, ora ha qualcosa di diverso, suona finalmente come una voce molto più che umana nella sua pietà.

“Mi scusi se la disturbo ma è scappato via così in fretta…” dal tono capisco che vuole farmi comprendere che non è una telefonata ufficiale ma privata e così continua “non la chiamo per i venti euro, la signora me li potrà dare con calma quando vuole…”

– Venti euro? Quali venti euro? Un dubbio iroso mi assale.

Mia madre è riuscita a farsi dare venti euro da una sconosciuta in un posto dove io non sono riuscito nemmeno a farmi dare un posto di lavoro! Questi sono problemi…i problemi della mia storia, motivi per i quali siamo in viaggio…

“È ancora in linea, mi sente? Dicevo che è scappato via dimenticando la sua ventiquattrore”.

Non so per quanto tempo il mio cervello abbia viaggiato in salamoia ma solo lì a questo punto decide di riprendere parte alla conversazione… “la valigetta, oh cazzo!”, già rompo il silenzio e l’educazione allo stesso tempo e con queste parole.

Ogni possibilità per quel fottuto lavoro è fumata via verso l’esterno giorno di un’altra storia.

“Gliela posso spedire” e sento che si sforza di smorzare a stento una risata.

“Sì, guardi, ora mi farebbe un piacere, sto partendo per Avellino e me la può spedire lì visto che mi soffermo per un poco”.

“Davvero? Ma va? Guardi che coincidenza, anche io vado ad Avellino, è la mia città. Sfruttando il ponte torno dai miei genitori. Se vuole ci possiamo vedere lì per un caffè…se vuole…gliela posso sempre portare io la ventiquattrore così ci risparmiamo i soldi e il disturbo della spedizione”.

“Sì, sì…davvero con molto piacere”.

“Detto tra noi, davvero molto carino il balletto alla Juary”.

Ha riconosciuto l’idolo dell’infanzia di pochi e la immagino mentre sorridiamo insieme al telefono ma la mia immaginazione viene continuamente martellata fino a spegnersi, spero non per sempre.

 

“Le lascio allora il mio numero di cellulare così ci risentiamo con calma 347zzzzzzzzzzz”.

Caduta la linea, la batteria si è scaricata e il mio carica-batterie è andato, rimasto nella valigetta ventiquattrore. Rientro nello scompartimento, fuori dal finestrino il cielo è gonfio di pioggia.

La pioggia è sempre una promessa.

“Ma, guarda che vado a comprare qualcosa da leggere, dammi i soldi…”

“Quali soldi? Sai che non ne ho…”

“I venti euro che ti sei fatta dare dalla segretaria!”

“Ah, quella stronza di Lucia…”

– Ma come? Conosce anche il nome!

Mia madre parla sempre con tutti, la gente di fida di lei, al punto di arrivare a darle dei soldi mentre con me non parla mai nessuno; manco il nome di Lucia ero arrivato a sapere.

– Vabbè lascia stare, uso i miei, te li lascio quei venti euro che potrebbero sempre servirti- Vado all’edicola della stazione, compro un libro ed un giornale e la mia fantasia torna a galoppare….

Nonostante tutto si trovava ancora un bell’ uomo riflettendo la sua immagine nello specchio come ogni mattina da quindici a questa parte. Allontanati gli anni delle scuole, Ferdinando, aveva scoperto il piacere di trovare uno specchio al mattino e nonostante tutti gli anni già passati si trovava ancora un bell’ uomo. Provava ancora soddisfazione a rinverdire la sua parte de “il mito di Narciso” in quel ambiente poco consono, profano, ma rituale come il suo bagno. Ferdinando provava ogni volta a decodificare i miti, i riti, le abitudini e le consuetudini che ormai affollavano il suo piano dell’esistenza senza essere capite dall’occhio umano della donna qualunque. L’uomo qualunque è sempre stato rapito da altri sguardi e non navigava più da secoli, se mai nel suo dna avesse ereditato materiale marinaro, ma si sentiva ancora fiero erede e depositario del mito di Ulisse. Odissee su odissee. A che pro farsi la barba se lui ricordava benissimo che nello sceneggiato televisivo della televisione nazionale, Ulisse stesso, l’eroe moderno più antico che si possa trovare nella cultura pop, se Odisseo stesso, Ulisse per i più e Nessuno per i meno, aveva un corollario di barba al suo viso? Ferdinando non si rase quel suo bel viso seguendo le indicazioni mitologiche di una televisione distratta o di un regista che era meglio documentato di lui e dopo un azione non fatta, scese nel bar sotto casa. Ormai privo di Telemaco e di una Penelope, a cui dar da provvedere una reggia in sua assenza, aveva però conosciuto molti Proci ma Ferdinando non era solito fermarsi a domandare dei gusti sessuali delle perso-ne, nonostante fosse ancora un bell’uomo. Ogni casa ha sotto un bar, strana combinazione. Domus e tempio, Ferdinando si rammaricava ogni giorno per non aver studiato greco e latino. Inglobato dalle sue scelte precedenti che lo avevano portato a studiare circuiti elettrici e linguaggi macchina che si estingue-vano nella società informatica più velocemente del Manx (lingua morta), aveva dedicato la sua gioventù a perdere tempo.

Culture lontane nel tempo e nello spazio lo avevano per troppo tempo esiliato nel mondo moderno. In maturità aveva scoperto uno scrittore perseguitato dalla scarsità di memoria di critica e pubblico e ne aveva ingoiata ogni singola parola, letteralmente.

Per sentirlo suo, per avere il potere di quelle parole mangiò tutte le pagine di quel libro capolavoro condito con olio e sale. Cannibalismo culturale. Cultura sì ma stupido no. Come alcune tribù africane, che lui aveva visto solo in Porky’s, e più precisamente quando Pipino Morris usa a scopo educativo il National Geographic, aveva praticato il suo rituale cannibalesco con la prosa magica di un maestro della letteratura. Aveva da sempre voluto scrivere Ferdinando per scappare dalla normalità attiva della vita, aveva capito fin troppo presto che solo l’uso magico della parola avrebbe potuto spostarlo al livello gerarchico della comprensione. C’è chi è nato per l’azione e chi per la comprensione, questo lo comprendeva benissimo. Non era però sicuro quale fosse il suo posto o aveva compreso così bene tutto che non doveva più fare nulla o aveva fatto tutto che non c’era nulla più ormai da comprendere. Bibbia? Letta, ma chissà in quale traduzione si domandava. Vangeli? Letti, ma chissà in quale traduzione si poneva domanda.

La Divina Commedia? Letta, ma chissà in quale edizione si inquietava. I promessi sposi? Letti, ma Manzoni non lo aveva mai annoverato tra i suoi lettori e questo lasciava un retrogusto amaro sulle pagine di quel libro

Certo li aveva letti e mangiati tutti per impossessarsi del verbo. In principio fu il verbo, dopo l’azione e venne dunque la digestione. Gadda, Pirandello e Sciascia avevano quel gusto classico, un po’ di salse francesi con Dumas, Balzac e Sartre. Fish and chips incartati da Shakespeare, zuppe e sapori Yiddish per Singer e così via di menù in un menù per ogni giorno che alimentava la sua conoscenza. Trovava indigesto Eco e lo aveva eliminato dalla sua dieta.

Ogni scrittore era figlio dei sapori della sua terra e Ferdinando per impadronirsene univa gli aromi alle prose.

Poteva nella suo appetito discernere libri su libri. Li leggeva, li assoggettava e poi a seconda o meno che gli piacessero, in quanto il suo era un palato fino, decideva se deglutirli con-diti o meno. Da buongustaio qual’era si prodigava anche in qualche manicaretto, odi, sonetti che servivano a stuzzicargli l’appetito, subito da lui composti e privati al resto della riluttante umanità. Il capolavoro assoluto aveva deciso che sarebbe sceso nel suo stomaco da solo privo di qualsiasi condimento ma non lo aveva ancora trovato.

Poi la mia mente se ne va, scemando in dissolvenza, lasciando spazio alla realtà dove la stazione di Milano si staglia imponente ma davvero impotente in tutta quella sua rigidità di cemento e di grigi che sfumano nel verde della malinconia di una grandezza che mai vi è stata, e che mal si sposa coi contrari delle troppe partenze presenti che rendono ciclica l’assenza della felicità in questo luogo.

Risalendo sul treno mi perdo nell’osservare la scena del tipo impacciato che si accinge a pagare un caffè alla biondina distratta seduta dietro la cassa del bar.

E comincio a immaginare, uno dei miei problemi è proprio questa fervida immaginazione, sono suo prigioniero…quando rispondo a perché troppo aperti, per una sola riposta certa, comincio ad allacciare storie.

Chissà se è la prima volta che prende il caffè lì… no troppo semplice, non è mai così semplice la realtà e quindi non può essere la prima volta: lui è un suo ammiratore e tutti i giorni si ferma a prendere il caffè in una maniera anonima quanto romantica e lei non lo considera proprio tanto che nemmeno se lo ricorda come avventore abituale e così lui potrà solamente impazzire per una follia chiamata amore e si presenterà al suo cospetto in stazione centrale, a smorzare l’onnipresente malinconia ferroviaria grigioverde, armato solo di un mazzo di fiori e della sua folle nudità, regalando un finale surreale a questa storiella da caffè a 1 euro.

Due minuti dopo l’immaginazione è diluita, solubile nella mistura composta dal troppo rumore e dalla troppa lentezza di questo treno che comincia così lentamente e rumorosamente a sferragliare verso il sud.

“Mentre Milano traspira il Sud suda. Juary balla ancora una volta” mi dico tra me e me.

 

 

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