A volte ritornano…

Capitolo nove- la prova mancata

Viaggiando i ricordi si allargano sempre come macchia di olio sulla tovaglia senza candeggio della vita.
E tra un quadretto e l’altro della poca fantasia biancorossa tovagliata della vita si può trovare qualcos’altro.
Poco prima di partire pan Hildebrando, scrittore sconosciuto di Polonia, aveva trovato un incontro casuale con un suo vecchio amico.

Suo nonno, il nonno di tutti gli Aristolakis oggi viventi, gli rammentava sempre che gli incontri si trovano perché si cercano!

Se no, tuonava come ogni nonno formatosi sulle colline, scordati pure le ragazze!

Il vecchio amico che aveva trovato l’incontro era un ragazzo che Hildebrando aveva conosciuto e frequentato ai tempi delle superiori.

Entrambi sepolti nel sonno invernale di un istituto tecnico superiore che spalancava ma che forse esiste ancora e spalanca tutt’oggi, le porte all’agonia della provincia di periferia.

Tornava in bocca il sapore meccanico, misto all’alcool di quei cappuccini industriali svenduti da quei distributori di benessere privi di calore umano.

E le mattinate perse là dentro che si accavallano ora tutte una addosso all’altra con lo stesso significato di tempo perduto.

E ricordava assieme a quel compagno del tempo le parole sprecate, i gesti inutili e le repressioni generose perché Hildebrando e i suoi amici persi nelle liste del tempo sapevano che i tempi non cambiano, corrono solamente e sono sempre gli stessi, cambiano solo la velocità.

Oggi invece vedeva il mondo attraverso i suoi occhi.

In qualche oggi di una qualche settimana e di un qualche mese della sua saga capiterà anche questo oggi.

Gli capiterà di soffermarsi a guardare il mondo e di buttare giù qualche considerazione.
Tutto sembrerà così ovvio.

E avrà paura, anche lui, un giorno qualunque, di sembrare banale.

Quell’oggi ha deciso, deciso di guardare al mondo e di non aver paura. L’ovvietà è il regno del mondo altrui.

Seduto su di una panchina, di quelle di legno che danno ancora il coraggio del contatto col mondo.
In una piazza, slargata e protetta ai quattro angoli da palazzi bassi e da un nome coraggioso terminato nel dramma.
Qualche albero in questa piazza e il sole che viene a trovare Hildebrando, ti saluto sembra dire il sole a te che finito di lavorare ora potrai riposare.

Bella roba il sole, andrà d’accordo coi santi, ma sui personaggi minori infierisce sempre pensava un personaggio minore come Hildebrando.

Un libro come compagnia, perché il rampollo degli Aristolakis è uno che legge, confusamente perché le sue idee chiare solo così glielo permettono.

Il libro, chiuso, riposante, poggiato sulla panchina, la copertina rivolta a terra, quasi che la forza di gravità possa aiutare così a contenere dentro al libro i demoni di pensiero, demoni che oggi non debbono uscire in quella piazza di coraggio antico e perduto.

Il nostro protagonista solleva la testa, a guardare oltre, poi raccoglie lo sguardo e lo concentra, allontanandosi dall’oceano delle avventure e lo focalizza su quel momento.

Emerge l’attenzione periscopio di Hildebrando, si affaccia ora nella superficie del presente.

La prima cosa che vede con questo sguardo coraggiosamente nuovo è una scenetta a tre:

padre, figlio e amico del padre. Una trinità di richiamo perfetta.

Mentre i due adulti discutono di cose banali, il bambino è sicuramente annoiato.

Dopo aver prodotto in maniera educata il maggior numero di decibel possibile, il figliol prodigio chiede al padre di fare una corsetta.
Il padre stizzito e disturbato nel mezzo del suo dibattito, si trova a rispondere:
No, non vedi che c’è gente? Così senza effetti spettacolari Hildebrando in un giorno normale divenne comunissima gente senza confondersi.

Il libro, quel inferno pesante, rimase ancora un po’ lì, chiuso, ignorato da tutti, poi le mani dalle radici monferrine lo presero e se lo portarono dietro in altre avventure e in altre osservazioni.

Dall’anonimato si decise per una volta, una volta sola a passare all’azione, anche se la sua di azione era sempre troppo letteraria, ricordava nei suoi libri quelli che aveva letto che Kerouac non aveva bisogno di uccidere tori per fare bruciare una pagina, anche se ricordava che di anime peregrine e di notti pellegrine non ne aveva vissute molte l’Hildebrando nostro sbadigliante per la notte lavorativa.

E il mattino si spense dietro le parole banali di un padre, non sarebbe mai stato un padre banale lui, in fondo tutti gli Aristolakis sono stati padri geniali, geniali nel tramandare il gene dell’incredulità ai propri figli, l’unico che titubava invece, che ogni tanto era preda di sconforto era Hildebrando.

Colpa del muro di Berlino diceva suo nonno.

Se quel muro non fosse caduto oggi non sarebbe così, ma sicuramente non è mai andato oltre questa frase.
Nonno Aristolakis era saggio e alla politica ha sempre preferito le donne, hai mai visto un politico bello?
Lasciala fare ai brutti diceva che è l’unico modo che hanno per attirare l’attenzione.
Nelle tue vene scorre nebbia, obbedienza, vino, legami di terra e profumo di muschio…lascia perdere la politica.

Era semplice la vita da nonno, forse, non così semplice essere un nipote meteora in questo modo troppo veloce, troppo davvero.

E tra le parole del nonno spuntò l’appetito.

Andò a fare colazione in un bar che era anche bar dell’albergo.
Gli strani casi della vita lo portavano a fare colazione in albergo pur facendolo dormire a casa, di giorno.
A pochi metri da casa sua.
La sua colazione consisteva in un caffè macchiato, molto macchiato, il latte è ossessione presente da quando stava scrivendo quel racconto omaggio a Philip K. Dick.
Stava facendo anche altre cose, a parte i soldi, quelli non li stava facendo per niente.
Stava lavorando come portiere notturno.
Un’altra di quelle sue esperienze formative che più che formare il carattere servono ad abbatterlo.
Il mondo fuori si divertiva di notte, lo dicevano tutti, lo dicevano tutte le pubblicità, persino il sole voleva la notte per divertirsi.
E Lui?
Lui l’eroe letterario lavorava di notte, sorrideva e accoglieva persone con un’ospitalità da classici greci.
Ma tornando al giorno che poi Hildebrando è antieroe notturno e figurante di giorno nelle grandi storie del mondo, tornando al filo conduttore risulta che al mattino faceva colazione in albergo per poi andare a dormire a casa.
Al bar dell’albergo che giace a pochi metri da casa sua.
La compagnia della colazione erano 4 o 5 elementi che più o meno a quell’ora si trovavano casualmente o meno.
Due amici che lo conoscono da quando è nato, una sua amica e a volte a caso qualche altro personaggio tipo Stagione Fallimentare o il Duca, un altro suo amico.

Al solito come è solito in questa parentesi straccio di vita, a fare colazione, passando dal retro, come anime secondarie, ma intime, sarà sveglio ancora per poco se mai lo è stato, come premio un unico sonno e forse un sogno, sberleffo del sole a parte.

In fila indiana attraversato il corridoio che porta al bar, da una strettoia vede uscire prematuramente forse il sogno.
E’ la nuova ragazza sfruttata-tuttofare, categoria in crescita demograficamente.
E’ lei in quel camice azzurro che risalta la sua carnagione, in netto contrasto con la pelle ambrata eredità di un altro sole, diverso rispetto a quello monferrino che aveva da sempre accompagnato gli Aristolakis.
Ha un naso stretto e piccolo come un vortice di promesse e i suoi due occhiali tondi poggiano su quelle guance perfette.

Ricorda subito le pagine di Arturo Bandini, non ricorda il numero, ma ricorda le sensazioni che Arturo Bandini provava in “Chiedilo alla polvere” di fronte alla sua principessa Azteca.
Ecco ora l’aveva capito, forse, davvero aveva capito come si scrive un libro e come nello stesso tempo ci si innamora di una ragazza.

Due cose che aveva sempre pensato differenti. Altro scherzo del destino: sarà lei a preparargli la colazione. Mentre sono rumorosamente presenti, lei traffica con quelle macchine del caffè da bar che sembrano eterne, grandi e con poco colore ma molto calore.

-E tu, macchina da guerra, quante bustine di zucchero vuoi?-

No, pensa, mentre la domanda è proprio rivolta a lui.

Macchina da guerra è un suo soprannome o almeno un soprannome che gli avevano lontanamente dato.
Viene fuori poche volte per sua fortuna, ma tutte le volte sono tutti attratti dalla solita domanda

– perché macchina da GUERRA?-

Forse perché Hildebrando è un nome troppo comune, vallo a sapere…

“due” è la sua risposta sulle bustine di zucchero.

Lei, l’ultima arrivata nella sua vita, gli mette il piattino davanti, il cucchiaino prima della richiesta del latte: -Mi ci metti un po’ di latte?-

Lei, solo lei, da dietro il bancone prende il contenitore che luccica, scrigno dei desideri mattutini, con dentro il latte, lo sofferma a mezz’altezza sopra la sua di tazzina e comincia a versare

– Così va bene?-

– Ancora un po’-

dice lui e non dice solo al latte. La tazza ora è piena e la solita immancabile domanda deborda

– Come mai ti chiamano Macchina da guerra?-

Risponde la combriccola

– Guarda che fisico che ha se non è una macchina da guerra lui… quasi che lo presentiamo alle elezioni-

Lo sguardo da dietro il bancone si arroviglia sul protagonista meno protagonista di sempre, due occhi diventano due punti interrogativi dietro a due occhiali.

Ecco lo sapeva…prendere tempo, bisogna prendere tempo, consegnare al mondo tempo, non farsi battere dalla velocità schiacciante di questi tempi confusi, prendere sempre tempo

– Storia lunga, ora stai lavorando non hai tempo…-

– Me la puoi raccontare dopo se ti va?-

Se gli va, dov’è il megafono? IO SONO ARTURO BANDINI OGGI!!!! Oggi Hildebrando nella prosa del suo racconto può passare alla prima persona.

Ok a dopo…
L’aspetta, in fondo quello che fa sempre è aspettare, ogni altra parola, mentre gli altri parlano per lui sarebbe sprecata.
Può solamente dire che l’aspetta, alla fine eccola là, la principessa sudamericana in un cappotto troppo grande per il sud America con l’aria che comincia a farsi fredda… si erano dati appuntamento al suo risveglio, lei avrebbe finito il suo turno quotidiano, lui sarebbe tornato nel mondo delle persone sveglie e poi si sarebbero rivisti.

– Eccomi-

– Ciao- solito scambio di saluti…- dove andiamo?-

– Ti va un caffè?-

– Sì, ok-

– Seguimi, conosco un posto-

Camminando per due minuti gli sembra che non siano due minuti che dovrebbe dire qualcosa di assolutamente intelligente ma che dire, cosa può far sembrare una persona intelligente?

Poche domande è molte certezze sembrava tuonare dalla memoria il nonno donnaiolo degli Aristolakis.

Arrivano al bar, si siedono, consumano due caffè…con molte chiacchiere e fumo… lui non è quello, SONO ARTURO BANDINI!!!!! Ha da dire.

Ecco glielo chiede:

– Hai mai letto “Chiedilo alla polvere?”-

– No, cos’è?-

– Un libro, di John Fante…conosci JOHN FANTE?- non aspetta nemmeno la risposta che continua a parlare – è la storia di Arturo Bandini, uno scrittore o presunto tale che ha scritto solo un racconto intitolato il Cagnolino ride ma adesso non mi chiedere cosa ci sia scritto in quel racconto perché non lo so, si diceva che incontra, ecco sì, incontra una cameriera e…se vuoi a casa ne ho una copia, te la presto…volentieri-

– Ok- dice lei e uscendo sono già diretti verso casa sua, l’interregno onirico di Hildebrando ora divenuto l’atrio Arturo Bandini verso la polvere…

Sono in camera sua, il resto non conta…

adesso sono davvero loro: un io e una lei.

Non lo sa chi sia: è una ballerina del sud, una maga dei tropici, una statua di umidità e sogni, una notte stellata sotto un altro equatore…

– Sembra bello-

– Prendilo- a significare: prendi il libro, prendi tutto…ma è ancora tempo di parlare piccola figlia del sud…

– Metto un po’ di musica ti va?-

– Sì, certo-

Mette le cadenze occitane, il ritmo allegro e sfocato dei Massilia Sound system…l’aria di Marsiglia che sferza al suo est, due o tre canzoni e poi chiede.

-Carino, ma non l’hai Anastacia?-

– No, no davvero- mette su la radio e quella roba commerciale che passa da Nek al nulla.

La vede, in lei vede i bar di Caracas, le notti stellate, il caldo, il mate, una parlata veloce e ritmata come guida verso i sogni, il sole come riferimento costante, vorrebbe andarsene per la prima volta da lì, da quel posto che è sempre stato suo, andarsene per tornare ad un livello più semplice di stili di vita, di bisogni primordiali e di altre musiche, vorrebbe e allora chiedo a lei cosa vuole.

– Una casa, una macchina ma per cominciare ora vorrei un aspirapolvere!!-

Poveri piccoli Gianni Maya e Paolo Aztechi, derubati fino in fondo, fino al loro fondo dagli Appenini alle Ande. Derubati dei loro diritti ai sogni da un signor Hoover o un signor folletto, derubati dalle compagnie produttrici di aspirapolvere.

Non c’è seguito nel ladrocinio, pensa alle parole di De André nel testamento di Tito “guardale ora quelle leggi tre volte inchiodate nel legno…”.

La lascia andare via, non è più Arturo Bandini, è quello che cerca posto a pag. 221 di qualche libro sulla letteratura del futuro mentre lei, beh, lei è ancora una che non sa perché lo chiamano macchina da guerra…
Anastacia ora è un aspirapolvere…e lui se ne torna alla terza persona, alla non azione, alla sua non azione con Sara, ecco sì è quello, quella, non sa perché ma ora gli è venuta in mente Sara, luce lontana dal cuore dell’azione, la non azione è meglio delle azioni quotate in borsa dei sadici produttori di aspirapolvere.

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