Il giardino dell’Amarcord fa spesso sbocciare nella memoria ricordi che non sempre corrispondono al vero, ma che alla luce della disperazione dell’oggi sono ancora i più belli a cui possiamo aggrapparci.
La prima volta che la mia Polonia fece timidamente capolino nella sua vita era una sera di un lontano novembre del 1999. I numeri sono importanti, sopratutto quando cambiano i millenni e muoiono vecchie paure per dare vita a nuove speranze.
La lavatrice condominiale del palazzo finlandese l’aveva costretto a uscire. La mia Polonia gli si presentò davanti vestita di nero, quasi in lutto per essere appena stata mollata dal suo ragazzo. Cominciò a parlare con l’unica persona che in quel determinato momento, in quel locale finlandese, non stava parlando con nessuno: lui.
Di solito l’aspirante scrittore non era uno di molte parole. Taciturno, sentiva il suo destino cambiare. Piccole magie stavano avvenendo un po’ ovunque davanti ai suoi occhi. A quel pensiero irrazionale se ne contrappose uno molto più terra terra: avere ancora addosso dei vestiti troppo indossati stava tenendo lontano le persone da lui.
La mia Polonia appena mollata. Era stata abituata a ben altro nella sua storia ricca di eventi che lui, no, lui non conosceva affatto come accade a ogni uomo medio occidentale. Lei gli si presentò così, con la sua storia e il suo vestito nero. Ricorda ancora che all’inizio la confuse con la Repubblica Ceca che, qualche giorno prima di imbarcarsi per la sua avventura finlandese, aveva visto in una reclame per un torpedone turistico di mezz’età su qualche televisione locale piemontese. Non era uno che aveva viaggiato molto prima di quell’anno e il suo “provincialesimo”, altro termine che lui amava usare a mo’ di vezzo, si manifestò in tutta la sua interezza. Forse fu proprio il coraggio dell’essere provinciale a dar vita a tutto quel che venne dopo. Fu in quell’attimo esatto che si videro che tutto ebbe inizio. Un inizio per due finali diversi.
È difficile a dirsi se in cuor loro, o nel più remoto anfratto delle loro menti, potessero immaginare cosa sarebbe successo dopo. Lui. Lei. Loro. Noi. L’ineluttabilità degli eventi, in fondo, è così.
Qualcuno ti mette al mondo e non saprai mai perché. Fu così anche per me. Ancora oggi nei miei momenti di solitudine mi chiedo il perché delle cose. Un perché che ho provato a inseguire raccontando la loro storia. “La Pologne? La Pologne? Dev’esserci un freddo terribile, vero?” aveva detto la Szymborska in un verso che lui scoprirà solo molto tempo dopo. Non sa come, ma mentre era seduto a un tavolino blu, illuminato dalla luce danzante di una candela che doveva ancora bruciarsi per metà, se ne uscì con una frase del tipo: – Ah, la Polonia, avete molti castelli!
La Polonia, lì per lì strabuzzò gli occhi cercando di capire cosa volesse dire. In proporzione, col senno di poi, di potrebbe dire che la Polonia ha tanti castelli quanti il Piemonte, anche se nessun ufficio turistico sabaudo si sognerebbe mai di usare i castelli come richiamo.
– Ah sì, forse il barbakan a Cracow e Warsaw.
Il barbakan? Cosa poteva mai essere? Il barba giuan o la barba di un cane? No, che andava a pensare. Doveva trattarsi per forza di qualche fortificazione che associò per ignoranza al Barbarossa, visto il suffisso che la contraddistingue, ma che nell’etimologia non gli diceva proprio niente. così cercò di giocarsi nel migliore dei modi possibili l’improbabile occasione che gli era capitata.
– L’ho visto in tv prima di partire!
– Guardi molta televisione?
All’epoca guardava molta più televisione di adesso, a dire il vero, ma non ricorda bene come proseguì il dialogo. La memoria, la sua amata e fallibile memoria, ha ricostruito un percorso tutto suo, basato principalmente sullo sguardo. Era perso, ma quello, a dire il vero lo era sempre stato. Era incredulo, e forse, per la prima volta in vita sua, ottimista… cioè poteva sperare in qualcosa di meglio! Cominciava a credere che qualcosa, qualcos’altro, anche solo temporaneamente, fosse addirittura possibile.
A volte prova ancora a ricostruire l’atmosfera di quella sera, ma l’atmosfera, almeno in parte, la fanno le persone. Così non gli resta che ricordare la liquidità dell’aria, assottigliata nel movimento ipnotico delle onde che correvano da lui a lei e che tornavano lentamente, come una marea d’anima.
Anche lei, come lui, era vestita in nero. Anche lei, come lui, era triste, ma per altri motivi. No, non sapeva ancora il perché. Anche lei, come lui, amava il cinema, anche se preferiva quello francese e non conosceva quello italiano. Anche lei, come lui, si sentiva in sovrappeso. E forse anche lei aveva visto almeno una volta i castelli polacchi.
Ma come in ogni favola contemporanea che si rispetti, a mezzanotte scatta il coprifuoco, perché a quell’ora passa l’ultimo autobus della sera e no, non si hanno in tasca i soldi per un taxi. Quello sono da conservare per un gioco per cui vale davvero la pena.
Prima di andare lei chiese a lui, tu da dove vieni?
– Genova.
– Genova?
– La città di Cristoforo Colombo.
– Ah, già, quello della scoperta dell’America. Uno che comunque si è perso.
Tornarono a casa e dormirono. Poco e male o comunque troppo. Ci pensarono e si ripensarono. Senza sapere che l’inarrivabile è l’unica motivazione possibile dei nostri tempi (questa io la lascerei aperta così) si incontrarono per non stare insieme ma per imparare l’uno dall’altra l’irrazionalità della bellezza del mondo. Questo è stato il loro primo incontro, o almeno è così che lo ricorda mentre rilegge da un foglio stropicciato e logoro quella che fu la loro prima mail.
L’indomani lui gettò quel messaggio nel mare aperto della lista pubblica. Tutti lo lessero, anche lei, senza capirne l’importanza che quelle parole avrebbero poi avuto nella sua vita. Importanza che ora la porta a piangere e a uscire fuori dalla mia stanza ogni volta che ci ripensa.
Lui le scrive una lettera. La prima di molte. Lei risponderà a tutte, o quasi. Entrambi ne conserveranno ogni copia, riposte per bene, una a una, in una scatola, come foglie destinate a conservare immagini e profumi di questo loro viaggio che da singolare è diventato plurale. La prima lettera scritta per lei è questa.
“Se stai leggendo queste parole vuol solo dire che ho avuto due volte coraggio, anzi tre: il primo a scriverle, il secondo a mandartele e il terzo… lo scoprirai leggendole.
È successo. È successo che ho incontrato una persona. Non so come, quando e perché. Non ero pronto, non lo volevo, non me l’aspettavo, ma ero lì in quel momento, quando lei iniziò a parlare. Disse una cosa semplice e mi meravigliai, mi meravigliai della sua semplicità. Risposi in modo stupido. Finisco sempre con dire un sacco di cose stupide in sua presenza. Lei parlava, e parola dopo parola mi accorgevo che l’unica che volessi realmente sentire era quella che mi avrebbe fatto continuare quella conversazione per tutta la vita, restando sempre nel mezzo, così stupidamente felice.
Ora vuoi sentire la buona notizia? Ecco, la persona che ho incontrato sei tu, sempre che questa possa essere considerata una buona notizia. Quella cattiva è che non so assolutamente come stare con te e tutto ciò mi spaventa da morire.
Questo qua fuori è un brutto mondo, in cui le persone spariscono e si perdono, in cui è facilissimo perdere l’attimo che cambierà le nostre vite perché siamo troppo spaventati. Non so se riusciremo a vincere tutte le nostre paure o almeno parti di essere, ma solo così potremo sentire l’uno nell’altra i profumi di casa, la flagranza di felicità, i ricordi, il caffè solubile bevuto alle tre del mattino che per magia sembra buono.
Le tue linee morbide risaltano mentre ti addormenti e pennellano i confini della mia mente.
Non so se questo voglia dire qualcosa. Forse sì, e nella mia paura procedo a tentoni circondato dalle tue immagini. Forse no, e ciò che sento è solo la semplice necessità che ho di te.
Se vuoi, sai come trovarmi. Sarò qui, tra queste parole, ad aspettarti.”
Poco fa, dopo l’ennesima rilettura della prima mail che l’aspirante scrittore italiano di provincia le mandò, mi ha lasciata sola. Conosce fin troppo bene quanto pesa la solitudine in questi casi.
Concentro il mio sguardo, mi fisso nell’enorme specchio tra una dimensione e l’altra, senza nessuna meraviglia. L’epoca della magia è finita da tempo.
Mi sforzo di riprendere le distanze dal dolore altrui. Il suo dolore è immenso, svuotata com’è. L’intensità delle sue emozioni ci ha legate fin dal primo nostro incontro. Lei comincia a sentire la mia presenza. Non è una, anche se è sola. Sono due, anzi tre. Come i tempi. Passato, futuro e presente. Eppure nulla è così semplice come sembra. Nemmeno darle un nome è qualcosa di facile, e al momento non riesco ad andare oltre la cortina dei suoi ricordi.
Il suo futuro mi è ancora precluso, non è ancora deciso, può ancora essere letto e riletto. È però troppo legata al passata per lasciare qualche spiraglio al presente. Lei è come un oceano in tempesta che viene casualmente cullato dalla forza di milioni di no e perturbata a cadenza giornaliera solo da qualche sì. Lampi di lucidità che, intemperanze a parte, le mostrano un altro mondo, un altro possibile mondo tra incalcolabili possibilità di verifica. O forse, a perdere qualche minuto di pensiero, si potrebbe credere che ad attenderla ci sono solo altri mondi impensabili.
Lei è fuori da quella porta e ha ancora tutta una storia da raccontarmi e da farmi vivere.